CIAK COMPIE TRENT’ANNI: ALCUNI BUONI ALTRI MENO BUONI (MA TUTTI NELLA LIBERTA’)

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Un articolo di Michele Anselmi apparso su Cinemonitor ripercorre i 30 anni di Ciak e le chicche del nostro numero speciale Celebration 1985. Il grande sogno, che trovate ancora in edicola

L’angolo di Michele Anselmi / Scritto per Cinemonitor

In copertina c’era Harrison Ford, col cappello di paglia da amish, a ricordarci che di lì a poco Witness – Il testimone di Peter Weir, gran noir alla luce del sole, sarebbe passato al 30° festival di Cannes. Era maggio 1985, usciva il primo numero di Ciak, anzi Ciak si gira, mensile fondato da Gigi Vesigna, il quale scriveva sull’editoriale di inizio lavori: «Nonostante tutto, la gente va al cinema. Soprattutto ci vanno i giovani che ancora, con la loro presenza, sottolineano il fenomeno, indicano il prodotto che vale la pena di vedere e discutere, riempiono con la loro vivacità le sale ». Aggiungeva: «Poi c’è la tv che, a torto, viene considerata acerrima nemica del grande schermo. Personalmente non la penso così ». Aveva ragione Vesigna, benché allora fossero in pochi, specie tra registi, attori, produttori e distributori, a pensarla così.
Trent’anni non sono pochi. Alcuni buoni, altri meno buoni, ma tutti nella libertà, per parafrasare un celebre slogan della Dc. È decisamente una bell’età (averla ancora…); e fa bene Ciak, che nel frattempo ha perso quel “si gira” e ha irrobustito in chiave post-moderna i caratteri della testata, a festeggiare l’evento con un numero speciale, intitolato Celebration 1985. Il grande sogno. Oddio, quando sento parlare di sogni mi viene da pensare più a Marzullo e a Veltroni che a Kurosawa e Moretti, ma un po’ di cine-retorica ci sta. Anche perché Ciak ha conservato in tutti questi anni, pure nei passaggi editoriali, un ruolo di spicco, riuscendo nella non facile impresa di essere rivista popolare e sofisticata, divertente e colta, ultra-hollywoodiana nelle copertine ma attenta ai valori del cinema d’autore nel contrappunto.
Quattro i direttori che si sono succeduti, lo “storico” Gigi Vesigna, il traghettatore Luciano Di Pietro, il transeunte Carlo G. Dansi e la maratoneta Piera Detassis. Quest’ultima, infatti, guida ininterrottamente Ciak dal gennaio 1997, un caso più unico che raro nel panorama editoriale, e bisogna riconoscerle di aver tenuto duro, vincendo le titubanze di chi, alla Mondadori, avrebbe voluto chiudere allora la testata. Oggi, come si sa, presa in mano da Daniela Santanché, editore non proprio puro, anzi piuttosto spurio e politicamente coinvolto, ma deciso almeno a tenerla in vita, se possibile a rilanciarla secondo le nuove esigenze della comunicazione.
La forza di Ciak, rispetto a riviste più togate e severe, risiede nell’eclettismo birichino, in quella capacità di mischiare promozione sfavillante e registrazione critica, anche attraverso il dosaggio di rubriche, rubrichette, curiosità impertinenti, gadget vari, sfottò a fumetti e approfondimenti dottorali. Non escludo che anche Detassis abbia dovuto, all’occorrenza, applicare una sorta di cine-manuale Cencelli, specie se uscivano certi film riferibili alla casa madre o di amici molto suscettibili; ma in generale, mi pare, Ciak ha conservato in questi sei lustri uno spirito libero, aperto al dibattito anche serrato, non cinefilo in senso deteriore, giocando sempre su una titolazione estrosa, fatta di assonanze e giochi di parole, e tuttavia rigoroso nei rifermenti, nelle citazioni, nell’apparato informativo.
Sfogliando il numero per il trentennale, tutto incentrato sul 1985, ho ripensato ad amici che non scrivono più su quelle pagine, soprattutto ad registi e attori che non ci sono più: Federico Fellini, Sergio Leone, David Lean tra i primi; Ugo Tognazzi, Giuliano Gemma, Michel Serrault tra i secondi. Molti capelli sono caduti nel frattempo e tante facce sono state orrendamente ritoccate dal chirurgo estetico, e tuttavia, a parte l’ansia di psicoanalizzare chiunque attraverso le interviste di Anna Pavoni, non ho trovato ingenuità sfacciate o cadute di stile, al massimo qualche refuso evitabile in alcuni titoli con tanto di ammenda redazionale (un Orson Wells invece di Welles, un “Passaggio in Iindia” con due i, una Hollyood senza la w…).
La verità? Continuo ad acquistare ogni mese Ciak. Un po’ vedere come escono i miei pezzi e pezzulli, quando il direttore me li chiede; e molto per informarmi su uscite e tendenze, per rubare qualche frase alle belle interviste americane, per condividere o criticare. Buona e onesta divulgazione: questo continua a fare il mensile, e se ogni tanto mi sembra che le copertine si ripetano pigramente (basta con Jennifer Lawrence, vi prego) è altrettanto vero che l’occhio vuole la sua parte e gli italiani fanno vendere meno.
Infine. Leggo da un’intervista che nel 1985 il bravo Alessandro Spinaci fece a uno sbarbato Nanni Moretti reduce dalle riprese in tonaca di La messa è finita: «La persuasione e l’angosciata ricerca del consenso di tutti non rientrano nei miei programmi morali e artistici ». Vale per il mestiere del regista, ma forse anche per il lavoro di noi cine-scribacchini.