CIAK LEGENDS: MAX OPHÜLS

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DI MASSIMO LASTRUCCI

Da Liebelei a Lola Montes, passando per struggenti delizie come La signora di tutti e  I gioielli di madame De…, Max Ophüls ci ha regalato capolavori della storia del cinema, sempre stimolato dall’impresa tecnico-narrativa più difficile e dalla ripresa più spericolata, cercando di dare il massimo risalto ai luoghi più reconditi dove il cuore palpita  

Ha diretto film in 5 paesi (Germania, Francia, Italia, Olanda e USA); è nato in Alsazia, regione storicamente contesa tra Francia e Germania; è di indiscutibile origine ebrea. Ma non è per questo che Max Oppenheimer (6 maggio 1902- 26 marzo 1957), conosciuto con il nome di Max Ophüls, che le circostanze obbligarono a cambiare a volte in Ophuls (senza dieresi) o Opuls, è personalità decisamente internazionale (non apolide o senza patria si badi bene, anzi: per la storia dal 1935 ha assunto la cittadinanza francese) e che nessuna cinematografia lo ascriva tra i suoi padri o numi tutelari. È piuttosto il cinema di Ophüls in sé – i suoi temi – ad essere universale, mentre il suo stile è sempre fantasmagoricamente unico, personale, inimitabile.

Max OphülsA Saarbruken il padre avrebbe fortemente e rigidamente coinvolgerlo nella sua professione di commerciante, lui scelse l’arte, il teatro, la regia; prima teatrale, poi lirica e infine dal 1930, cinematografica con il debutto non preventivato dietro la macchina da presa con Dann Schon Lieber Lebertran (trad.: È meglio l’olio di fegato di merluzzo). In 27 infaticabili anni di lavoro, di disavventure esistenziali e politiche (il quanto mai previdente abbandono della Germania dopo l’incendio del Reichstag nel 1933, l’impegno bellico con la Francia nel 1938, la fuga dopo l’occupazione nazista prima in Svizzera, poi negli USA e il ritorno a “casa” a Parigi nel 1950) ci ha lasciato opere straordinarie, tra cui alcuni capolavori assoluti della storia del cinema.
Gioco la vita, si intitola la sua autobiografia. È un titolo appropriato, perché contiene in sé i suoi due interessi supremi: la vita, cioè la materia che non ha mai cessato di stupirlo e interessarlo, con lo studio delle manifestazioni del sentimento amoroso in tutte le sue dimensioni, e il gioco, cioè la leggerezza dello stile, la leggiadria della sua apparente “superficialità” per affrontare al contrario, con eleganza e discrezione, le tematiche più ardimentose e complicate che si possano narrare con una cinepresa: la passione amorosa e i suoi disincanti, i sacrifici – a volte persino silenziosi – in nome di essa, il sublime della trascendenza del sentimento o viceversa il dolore inconsolabile della sua perdita. E questo in ogni occasione, da amante fedele della bellezza del vivere, a volte con letizia a volte melodrammaticamente, per una cinematografia che non ha eguali -dicevamo anche prima- per lo stile.

Liebelei
Liebelei

Da Liebelei (1932) a Lola Montes (suo coloratissimo canto del cigno nel 1955), passando per struggenti delizie (solo per citare gli imperdibili) come La signora di tutti (in Italia, 1934, con Isa Miranda), Werther (1938), Tutto finisce all’alba (1939), Lettera da una sconosciuta (1949), Nella morsa (1949), Sgomento (1949), La ronde (1950), Il piacere (1952), I gioielli di madame De…(1953), Max Ophüls è sempre stato stimolato dalla impresa tecnico-narrativa più difficile, dalla ripresa più spericolata, sempre però per dare il massimo risalto ai luoghi più reconditi dove il cuore palpita («La macchina da presa esiste per mostrare sullo schermo ciò che non è possibile vedere altrove: né sulla scena né nella vita »). Ha così affrontato e fatto affrontare al suo staff le sfide più impossibili («quando chiedo che la macchina da presa improvvisamente si alzi o cominci a ballare, la prima reazione che provoco sono le facce impaurite degli esperti tecnici »), piani sequenza “interminabili” eppure raffinati e leggeri (es.: le riprese circolari di La ronde), la capacità di utilizzare la letteratura (e stiamo parlando di giganti come Goethe, Maupassant, Zweig o Schnitzler) per creazioni del tutto personali e autonome. E questo senza l’alterigia del maestro solitario, ma anzi con la allegria e la positiva generosità d’animo del vero creatore, capace di ascoltare ogni collaboratore (in fondo se confessava con civetteria di aver rubato da tutti, riconosceva una filiazione artistica soprattutto in Max Reinhardt, il regista austriaco che trasformò le regole dell’allestimento teatrale). Del resto, come sosteneva: «Se la dismisura della mia immaginazione ha per solo risultato di esaltare una gioia puramente visiva, non sarà del tutto vana. Perché questa gioia, questo piacere deve essere l’impulso decisivo che porta all’idea del film ».

Il suo nomadismo non lo aiutò in vita nei riconoscimenti critici. Due sole Nomination agli Oscar, per la sceneggiatura di La ronde (1950) e per la scenografia (!!!) in bianco e nero di Il piacere (1952). Un po’ meglio gli andò a Venezia, con un premio nel 1934 per l’italiano La signora di tutti e uno alla sceneggiatura di La ronde. Dobbiamo ringraziare ancora una volta l’intuizione dei Cahiers du Cinema, in particolare anche di François Truffaut che lo adorava (per Lola Montes parlò di «cattedrale tra cielo e terra »), che specialmente dopo la sua prematura scomparsa ne fecero oggetto di una riconsiderazione che si allargò nei ’60 a tutto il mondo della critica. Tanto che oggi è unanimemente considerato tra le massime personalità dell’arte cinematografica.

Ecco quindi i 3 film cult di Max Ophüls!

LETTERA DA UNA SCONOSCIUTA (USA, 1948)
Con Joan Fontaine, Louis Jourdan

Lettera da una sconosciutaVienna. In attesa di fuggire da un duello di cui ignora le ragioni, l’ex pianista di talento e fatuo seduttore Stefan Brand riceve una lettera, non firmata. Scoprirà di essere stato sempre amato, silenziosamente, da una donna che non ha mai considerato. Da una novella di Stefan Zweig modificata per sfuggire alla censura, un film costruito con rara arditezza (per i tempi) quasi interamente da flashback. «Una delle miniature più deliziose costruite a Hollywood » (definizione del critico Michele Mancini), a oggi uno dei film più trasmessi dalla tv USA e nel 1992 scelto per la conservazione dalla Biblioteca del Congresso.

LA RONDE (Francia, 1950)
Con Anton Walbrook, Simone Signoret

La rondeCome in un anello, una sorta di imbonitore da circo introduce una serie di personaggi tutti legati insieme a due a due (a mo’ di staffetta), dal sentimento amoroso. Fare dell’arte dell’amore il centro di una stilizzatissima trama e svilupparla con immensa eleganza. Da un dramma concepito per il teatro da Arthur Schnitzler (Girotondo) che il cineasta ravviva meravigliosamente muovendo la cinepresa in armoniose circonvoluzioni, girandolo tutto in uno studio. Distribuito in Italia anche col titolo di Il piacere e l’amore, purtroppo con vistosi tagli a censurare i dialoghi. Roger Vadim lo rifece nel 1964 con molta meno maestria.

 

IL PIACERE (Francia, 1952)
Con Jean Gabin, Simone Signoret

Il piacereTre episodi da altrettanti racconti di Maupassant: Le masque, La maison Tellier, Le modèle (che sostituisce l’inizialmente prescelto La femme de Paul che spaventò il produttore per la sua audacia tematica, ovvero un rapporto lesbico). Il secondo in particolare, che narra la domenica di vacanza in campagna di un gruppo di prostitute è un gioiello assoluto di grazia, mentre nel primo episodio la sequenza iniziale è uno dei capolavori visivi dell’intera storia del cinema. Assurdamente snobbato alla sua uscita, ma adorato dalle menti più acute. Come si chiedeva Godard commentandolo: «cosa sarebbe il piacere, senza l’amore e la morte? ». E il trittico ci parla proprio di questo. Semplicemente sublime.