E I PAZZI SIETE VOI

0

Lo avevamo lasciato tre anni fa sprofondato nelle nebbie del Nord de Il capitale umano, tra polemiche politiche e Twitter. Adesso lo ritroviamo in un sabato di sole qui a Cannes, alla Quinzaine des Réalisateurs, con La pazza gioia, dodicesimo film in ventidue anni, storia di due donne irregolari, Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi, e di una follia che forse poi tanto folle non è.  Ecco il racconto del regista toscano per temi, da Cannes alla pazzia.

CANNES «Per me è davvero un onore e una piacevole sorpresa stare qui, specie la collocazione alla Quinzaine des Réalisateurs, la sezione più battagliera, innovativa e meno pomposa di Cannes. Mi fa sentire di nuovo agli esordi, in un momento in cui l’anagrafe suggerisce l’incombere dell’andropausa. Quel poco che conosco della Croisette – essendoci andato solo da spettatore o per incontri di lavoro – è che sembra una messinscena perfetta per far credere al mondo la bellissima, strepitosa bugia che il cinema sia la cosa più importante di tutte…».  

L’INCIPIT «La pazza gioia comincia da Il capitale umano. Guarda, vi rivelo una cosa. C’era una scena de Il capitale umano che abbiamo girato anche se non era prevista: la signora Bernaschi, ovvero Valeria Bruni Tedeschi, dopo aver promesso al marito di raggiungerlo per festeggiare con i soci i nuovi successi conquistati a scapito dell’economia del nostro Paese, scappava via da quello che le sembrava un mondo insopportabile, si levava le scarpe col tacco per correre come una matta giù per un dirupo, scalza, tra cespugli e rovi. Valeria aveva eseguito quella scena con uno slancio liberatorio impressionante, procurandosi anche qualche ferita. La scena poi non l’abbiamo montata, ma, forse, è diventata lo spunto segreto de La pazza gioia».

LE DONNE «C’è senza dubbio una visione del mondo al femminile ne La pazza gioia, anche se è difficile prescindere dalla propria natura maschile, ma quanto a gusti letterari e cinematografici, da sempre, ho un debole per i personaggi femminili. Sarà che da ragazzino alternavo Jack London a Piccole donne, più avanti la Austen a Dickens, preferisco Jane Campion a Stanley Kubrick e persino agli amati Monicelli e Risi – pensate un po’ – preferisco Pietrangeli. Divarsamente dal solito ha lavorato sul copione, con me, anche la penna di una scrittrice come Francesca (Archibugi, nda). E anche stavolta m’è capitato di filmare momenti con decine di donne nella stessa stanza, come mi era capitato in Tutta la vita davanti. Villa Biondi, la nostra comunità un po’ vera un po’ inventata, era un ribollire di ormoni femminili. Cosa ci facesse lì in mezzo ad orchestrare danze auto-calmanti, crisi di angoscia e messe cantate un regista maschio di Livorno è un mistero anche per me».

LE STORIE «La pazza gioia legata in qualche modo a La bella vita (primo film di Virzì, nda)? Non lo so, lo dite voi, ma mi fa allegria pensare di star intrecciando, negli anni, una specie di macrofilm, ed è evidente che le ispirazioni delle storie che mi è capitato di girare abbiano spesso origine nei territori della mia adolescenza. Così come si guardava a Piombino come microcosmo operaio, insieme ai coetanei livornesi ci si spingeva in quella specie di Las Vegas che erano per noi le discoteche di Forte dei Marmi e Marina di Pietrasanta».

LA TOSCANA «Con La pazza gioia sono tornato in Toscana a girare, perché in fondo quel mondicino lì della Toscana West Coast, con le sue mitologie e le sue meschinità, è stato quello degli anni della formazione. Credo sia destinato a rimanermi dentro per sempre come luogo mentale romanzesco. Le ville nobili sono intorno a Lucca, la botanica intorno a Pistoia, le vacanze dei ricchi all’Argentario, le balere miserabili e licenziose a Lido di Camaiore, i tentativi di suicidio dai ponti sulla costa del Romito. Non è che sia tornato è che forse, senza rendermene conto, non me ne sono mai andato».

LA FOLLIA «Da una parte La pazza gioia è nutrito, nelle fondamenta, da una lunga esplorazione nel circo italiano della salute mentale, ovvero dalla risposta delle istituzioni sanitarie al mal di vivere. Che, a quarant’anni da quella che doveva essere la rivoluzione basagliana, è ancora fatta di ospedalizzazioni, camicie di forza chimiche, isolamento lontano dagli occhi dei cosiddetti sani ad intrecciare giunchi o, appunto, a curare orti sotto la sorveglianza di medici e suore. O addirittura di segregazione in quegli obbrobri che sono gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, ufficialmente chiusi da una legge entrata in vigore soltanto nell’aprile scorso, ma ancora affollati di internati cronici ai quali non si è in grado di offrire un’accoglienza alternativa»

GLI IRREGOLARI «Di Beatrice e Donatella – le protagoniste de La pazza gioia – non mi interessava solo la cartella clinica, ma le peripezie di donne dalla vita inguaiata. Non dimenticando in questo rapporto la questione sociale: Beatrice è la privilegiata prepotente che si rifugia nella follia per sfanculare il suo mondo di ipocriti e anaffettivi, Donatella è la subalterna ferita che è stata fatta diventare pazza dai pregiudizi di istituzioni ottuse e dalla miseria umana dell’ambiente in cui è vissuta. Aggiungerei che la malattia mentale ci riguarda tutti, consapevoli o meno, che a volte è un’espressione magari irragionevole, ma libertaria, di ribellione, e a volte una tortura che impedisce di vivere. E dal momento che se riguardo indietro al macrofilm della mia carriera di cui parlavamo prima mi sembra di vedere una nutrita galleria di casi clinici – smaniosi, ossessivi, insicuri, depressi, mitomani – mi sento di dire che la follia non mi fa paura, anzi mi attrae molto. Mi fa paura – e mi preoccupa – chi ne ha paura…».