ELIO GERMANO: VI RACCONTO IL MIO LEOPARDI

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Elio Germano racconta a Boris Sollazzo com’è diventato Il giovane favoloso, ma anche l’importanza di Gianmaria Volonté, la voglia di essere un attore libero e quella di passare dietro la macchina da presa

Il giovane favoloso. Si parla del nostro intellettuale più grande e sfaccettato, Giacomo Leopardi, ma è inevitabile incollare la definizione anche a Elio Germano, l’attore più potente, curioso e versatile del cinema italiano. Ed è lui a raccontarci il film di Mario Martone. Il giovane favoloso, appunto.Lo fa, solo per noi, a La valigia dell’attore, festival diretto e curato da Giovanna Gravina Volonté, con Fabio Canu, tutto dedicato all’interprete cinematografico, ai protagonisti della Settima Arte, come lo era Gianmaria Volonté. Nella splendida isola sarda, Elio ha tenuto un bel laboratorio per giovani attori. Il titolo? Geniale: “allenamento traumatico” dal teatro al provino audio/video. E da qui partiamo per una lunga chiacchierata.

Cosa significa venire nel luogo scelto da Gianmaria Volonté e insegnare qui a fare l’attore a un gruppo di ragazzi?
È emozionante. Anche perché lui è stato un riferimento, ovviamente, artistico e professionale, ma soprattutto umano. Mi emoziona Giovanna che porta avanti questo lavoro anche per onorare la memoria del padre, e questo fin dalla prima volta in cui sono venuto al suo festival. Conosco il mio mestiere e so che i nostri buoni risultati sono affidati al caso, agli incontri, alla nostra capacità di metterci a disposizione, come attori, totalmente, perché attraverso di te passi una grande performance. E lui lo faceva, non pensava alla carriera, ma alla riuscita del film, all’esperienza, alla voglia di lavorare con qualcuno. Per tutto questo sento un legame più con una persona, che vado a trovare nel cimitero qui a La Maddalena, che con un mostro sacro.

Sembra condividere con lui, però, lo stesso modo di fare le scelte.
Io sono molto più vigliacco di lui. Era ben più radicale Volonté, noi siamo bipolari, schizofrenici, facciamo soldi con le cose più sgradevoli, di cui un po’ ti vergogni, e poi metti l’anima nei progetti a zero budget. Io scelgo in base a un mio territorio di comunità: non mi interessa se un’opera è importante, ha un valore politico, oppure che possa darmi il successo. Voglio trovare una motivazione profonda, il sentire attorno un gruppo che ha un progetto comune, un senso di appartenenza.

Gianmaria Volonté ora avrebbe 81 anni. L’avremmo visto al Teatro Valle con voi?
Di sicuro sarebbe venuto. E di sicuro avrebbe pure litigato con noi, magari sposando l’ideale delle nostre azioni ma non approvandone la forma, chissà. E’ sempre stato una voce critica, indipendente, impossibile da inserire in qualsiasi schema. Ma avrebbe certamente condiviso una lotta contro istituzioni e politici attenti solo a piacere, a pensare ai prossimi voti, alle prossime preferenze. Io so che al Teatro Valle, con noi, è avvenuto il teatro, quotidianamente, senza che fosse la vendita di un prodotto il centro di tutto. In ogni spazio, con ogni tipo di umanità, esperimenti, talenti. Qualcosa di inarrivabile, che si sposava con laboratori professionali, tecnici, impossibili da trovare altrove, che hanno formato schiere di direttori di palco, tecnici delle luci, macchinisti. Un teatro collettivo non destinato a clienti , ma a cittadini. Non avremo fatto tutto alla perfezione, ma non dobbiamo pentirci di qualcosa di così bello. Abbiamo gestito pubblicamente uno spazio di tutti, discutendo in assemblee partecipate e anche estenuanti ogni cosa. Ma anche lì abbiamo capito di doverci riappropriare di un modo diverso di lavorare, stare insieme, collaborare. Ascoltando, prima di tutto. Abbiamo progettato e realizzato, ci siamo parlati tra attori, registi e sceneggiatori. Non succedeva da anni, da decenni. Che non si ignori un’esperienza così alta, anche se le istituzioni lo faranno. Se non l’hanno già fatto.

Come si affronta un personaggio enorme come Giacomo Leopardi?
Innanzitutto conciliandoti con l’idea che lo farai male e che è portatore di una tale complessità da costringerti a violentarlo con il tuo punto di vista. Devi fare l’interprete, non l’attore. Giacomo Leopardi era ed è così tante cose che non basterebbe una serie televisiva di 1800 puntate per restituirlo nella sua pienezza.

Cosa l’ha colpita di più di questo percorso cinematografico e letterario?
Era uno scienziato dei sentimenti, ha scritto di sé, delle sue esperienze e delle sue emozioni più di chiunque altro. Lui è tutto e il contrario di tutto, partendo dalle sue parole scopri un personaggio freddissimo e allo stesso tempo caldissimo, violento e contemporaneamente timido, fragile e coraggioso. Non puoi schiacciarlo in una definizione, in una maschera. E questo mi ha insegnato molto, è stato un bellissimo viaggio per me, tanto che è stato persino fastidioso girare, tanto era bello studiarlo e scoprirlo, abbandonarsi a lui.

Un’ulteriore sfida è stata farsi dirigere da Mario Martone, cineasta molto diverso dagli altri con cui ha lavorato
Certamente, il bello del mio mestiere è essere l’inchiostro di un autore come lui, dare tutto per mostrare la sua idea del film e del personaggio. A livello professionale è un regalo, soprattutto per uno come me. Cerco costantemente un cambio di registri e registi, per perdermi in ciò che sto facendo dimenticando che sono un attore. O ricordandomi che essere un interprete è, innanzitutto, metterti a disposizione di qualcuno. Del personaggio, ma soprattutto di chi dirige. Ed è questo che rende unico ogni tuo lavoro. E più cambio, più mi diverto.

Ha mai avuto paura di interpretare Giacomo Leopardi?
No, perché a livello visivo non è un uomo che è presente nel nostro immaginario, puoi e devi costruirlo partendo da una visione soggettiva. Non è Francesco Totti, che tutti conoscono, di cui abbiamo negli occhi ogni dettaglio visivo. Nella mia cinematografia anche Maniero non era presente nell’immaginario collettivo, così come Baldini o Folco Terzani. In ogni caso io cerco sempre di fare personaggi reali in modo diverso rispetto a ciò che tutti si aspettano. Sapevo che non avrei accontentato tutti, né è qualcosa che io abbia mai cercato. Che meraviglia affidarsi ai suoi testi, alle sue lettere, tentare l’impresa di rendere vive quelle parole, restituire loro la necessità, la potenza che avevano, che hanno. Pur appartenendo quel linguaggio a un’altra epoca storica, a un’altra mente, ben più geniale della mia.

Una montagna da scalare Leopardi. Come quella che scalerai presto?
Se parli di Bianco, con Daniele Vicari, è qualcosa che si realizzerà nel 2015. Sarà la storia, anzi una parte della storia di Walter Bonatti. Sarà molto bello, credo, ma ne parleremo in futuro.

Negli ultimi anni sembra essere ancora più libero, alla ricerca di un suo percorso preciso.
C’è uno scarto tra amore, voglia, passione, dedizione che hai per il tuo lavoro e le dinamiche di questo mondo, in cui vendere è essenziale. Per questo devi prenderti le tue soddisfazioni individualmente, persino egoisticamente, rompendo la dinamica in cui chi hai di fronte è solo un altro che può darti ancora lavoro. Altrimenti diventiamo come medici che consigliano un farmaco perché conviene a loro, il che esula dal motivo per cui sono diventati dottori. Capisci di essere libero quando te ne freghi di tutto questo, del denaro, rifiutando la frustrazione che provi quando magari guadagni bene ma lavori male. Devi sempre passare per una crisi, magari aiutato dal fatto, non mi nascondo, che ora mi cercano e quindi posso campare anche se rifiuto qualche film. E allora posso anche partire tre mesi con Emergency, perché posso permettermelo.

Ricorda per caso il momento preciso in cui è diventato consapevole di questo suo cambiamento?
Quando ho visto che il sogno di finire in uno spettacolo o in un film con una grande produzione, era sbagliato. Perché strutture importanti muovono più interessi e quindi sei ancora più imprigionato in logiche che non ti rendono libero di inventare, ma solo votato all’imitazione di qualcosa che ha avuto già successo. Là, scoprendo che lavori peggio quando ci sono i soldi, ho capito che dovevo cercare la mia felicità. Magari dove non c’erano finanziamenti, mezzi, risorse. Quest’epoca storica non ci fa più pensare di poterci mettere al servizio degli altri, di qualcosa di bello. Eppure solo questo ci salva, condividere talenti e competenze con chi magari farà lo stesso con te. Invece qui si vuole fottere il prossimo, non capendo che il successo momentaneo ti toglie tanto dentro. Abbiamo perso l’umanità in fughe in mondi fittizi, lontano dal piacere del vivere davvero.

Ora si sente maturo per la regia?
Non lo so, di sicuro ne sento sempre più il desiderio. A teatro già lo faccio, al cinema purtroppo, perché vorrei solo fare l’attore, sento la necessità di mettermi dietro la macchina da presa perché il mercato ci consegna un’industria in cui si fanno sempre più errori. Ma mi auguro di non farlo: se mi vedrete diventare regista o produttore sarà per dare la possibilità ai miei colleghi e a chi fa cinema di lavorare meglio. Perché ora questo non succede e soprattutto non interessa più a nessuno.

Boris Sollazzo