GABRIELE MUCCINO: “NON VIVREI SENZA IL CINEMA”

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«Un posto incredibile. Davvero incredibile». Gli occhi vanno subito al soffitto della Cappella Palatina, poi, dopo i saluti di rito e l’applauso del pubblico, Gabriele Muccino si siede e comincia a raccontare il suo lungo viaggio di cinema, dai primi sogni fino a Hollywood, da quel giorno al lago di Trevignano alla passione per De Sica e Rossellini. Dopo l’esordio con Matteo Garrone qualche settimana fa, il secondo protagonista di Maestri alla Reggia, la rassegna organizzata nella Cappella Palatina della Reggia di Caserta da Ciak in collaborazione con la Seconda Università di Napoli e Cineventi, ha visto salire sul trono Muccino, che ha tenuto una lunga lezione di cinema davanti a quasi quattrocento persone, raccontando passioni («Kubrick? Lui è il cinema»), ricordi e ossessioni.

Da Ecco fatto a Padri e figlie, da Roma a Hollywood: ripensando al giovane Gabriele che negli anni Novanta girava Ultimo minuto per la RAI, avreste mai detto che un giorno sarebbe arrivato a tutto questo? La realtà ha superato l’immaginazione?

Ho sempre avuto l’abitudine di sognare, ma tutto questo non era immaginabile, perché non sai mai cosa accadrà, puoi sperarci ma non lo sai. Per me già girare il primo film nel 1998, Ecco fatto – che oggi nessuno ricorda – fu un sogno che diventava realtà, ma poteva finire tutto lì. Poi sono accadute una serie di cose che nessuno – e sicuramente nemmeno io – aveva previsto, una serie di coincidenze che mi hanno poi condotto al mio primo film americano, La ricerca della felicità.

Quel film nacque da un’intervista di Will Smith, che ancora non conosceva.

Ricordo che ero al lago di Trevignano, era una domenica pomeriggio, quando qualcuno mi chiamò e mi disse che sul Corriere della Sera c’era una lunga intervista a Will Smith in cui lui parlava praticamente solo de L’ultimo bacio e di quanto lo aveva colpito. Cercai disperatamente un’edicola aperta e comprai il giornale. Cominciò tutto così, da quell’articolo. Qualche settimana dopo incontrai Will a Parigi, dov’era in promozione per Hitch e, nonostante il mio inglese improbabile, riuscimmo a capirci e mi disse di rivederci a Los Angeles.

Dove avrebbe incontrato i produttori…

Sì, arrivai agli Studi della Columbia, un luogo incredibile che metteva soggezione e mi trovai davanti a un plotone di persone guidate da Amy Pascal (ai tempi a capo della Columbia Pictures, poi invischiata nel caso hacker della Sony, nda). Mi dissero che il film era un progetto da sessanta milioni di dollari e mi chiesero perché avrebbero dovuto scegliere proprio me che non avevo alcuna esperienza di cinema americano e che non parlavo nemmeno troppo bene l’inglese. Avevano ragione. Non sapevo cosa rispondere, così bluffai e dissi una frase che non aveva alcun senso: «Se prendete me non vincete una volta, ma due» (ride, nda).

E poi?

Will mi disse di rimanere a Los Angeles ancora qualche giorno, rimasi in una sorta di limbo a Santa Monica fino a quando non mi chiamarono e mi dissero che il film era mio. Questo racconto è una prova tangibile di come la vita non sia prevedibile né gestibile. Le cose succedono. E tu ne vieni travolto.

La ricerca della felicità non solo incassò oltre 300 milioni di dollari, ma portò Will Smith alla seconda nomination all’Oscar.

E nessuno credeva che potesse fare quei numeri, anche perché Will Smith funzionava al botteghino quando girava blockbuster, ma quando faceva pellicole più artistiche, come Ali di Michael Mann, non otteneva grandi successi. Invece il film partì forte e incassò 27 milioni di dollari i primi giorni. E qui pesò anche un’enorme differenza rispetto all’Italia: negli Stati Uniti il cinema è un’industria, quindi il marketing è importante quanto le riprese di un film e ci sono persone pagate per riuscire a valorizzare al meglio il tuo lavoro, portarlo a più persone possibile.

Tra i suoi film di riferimento c’è 2001: Odissea nello spazio. Perché?

Perché Kubrick è il cinema. La prima volta che lo vidi non capii nulla, ma ne rimasi affascinato al punto di sognare una scena. Kubrick è oltre il cinema, è riuscito a espandere i confini del filmabile.

Ma oggi riesce ancora a essere spettatore? Oppure anche al cinema è sempre regista?

Se il film è bello sì, assolutamente. Mi perdo nella storia, vengo travolto dalle immagini. Se il film non decolla invece esce il regista che è in me. È come un cantante d’opera che sta seduto ad ascoltarne un altro: la stecca la sente subito.

Tra i film che ha scelto di portare qui a Caserta ci sono due italiani: Umberto D. di Vittorio De Sica e Otto e ½ di Fellini. Perché?

Perché sono due opere enormi. Umberto D. è un film che mi commuove ogni volta che lo vedo e la scena che ho scelto, quella in cui il cane salva dal suicidio il padrone, mi stupisce sempre, soprattutto il momento in cui il cane si nasconde dietro l’albero perché ha capito cosa voleva fare e lui poi cerca di farsi perdonare attraverso il gioco. Con Fellini invece vale il discorso di Kubrick: è oltre il cinema.

Nel 2001 il successo de L’ultimo bacio la travolse: 16 milioni di incasso, David di Donatello, Nastri, tre Ciak d’oro, addirittura un remake americano con Zach Braff. Quante cose sono cambiate dopo?

Il successo ti condiziona, cambia per sempre la tua vita, non hai più il dono dell’invisibilità. Se attraversi una piazza e inciampi si girano tutti e ti guardano per terra. Fu imprevisto, accadde tutto molto velocemente. Quell’incasso per un film italiano che non fosse una commedia era imprevedibile, ma sul set nessuno ci aveva pensato.

Ma lei rivede mai i suoi film?

No, mai, non ho nemmeno i Dvd a casa. Perché? È come riguardare le foto di quand’eri giovane. È successo, ma non sarà mai più così. Preferisco pensare a quello che farò.

Dopo Padri e figli, il prossimo film sarà italiano.

Sì, L’estate addosso, dovrebbe uscire la prossima primavera ed è una storia che ho amato molto raccontare.

Cos’è il cinema per lei? Riuscirebbe a vivere senza?

No, è una parte enorme di me. Potrei dire che mi serve per esistere. E negli anni ho capito che il cinema è il modo in cui voglio comunicare le fragilità e le debolezze dell’essere umano.