“Ghost in the Shell”: la recensione

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Usa, 2017 Regia Rupert Sanders Interpreti Scarlett Johansson, Pilou Asbæk, Takeshi Kitano, Juliette Binoche, Michael Pitt, Chin Han, Danusia Samal, Lasarus Ratuere Distribuzione Universal Pictures Durata 2h

Al cinema dal 30 marzo 2017

IL FATTO – Cervello trapiantato in un corpo sintetico e potenziato, il Maggiore Mira Killian Kusanagi è il punto di forza della Sezione 9, una squadra speciale che si occupa di crimini cibernetici. Ma che cosa è il progetto 2571? Perché l’entità chiamata Kuze, capace di invadere e hackerare le menti ibride o non umane, sta eliminando gli scienziati e i boss della Hanka Robotics, la società che ha tra l’altro creato, mettendo lo “spirito nella conchiglia” (cioé l’anima in un corpo sintetico) il quasi invincibile cyborg? La soluzione della caccia e dell’enigma riuscirà anche a rispondere a più di un mistero sul passato della super-eroina.

L’OPINIONE – “Nel futuro il confine tra uomo e macchina andrà scomparendo”: in un contesto alla Blade Runner ancor più drammaticamente evoluto, al caos di una società gigantesca, tentacolare e disarmonica, in cui i robot convivono con gli uomini, si aggiunge il caos etico delle identità miste, con gli uomini che si innestano volentieri protesi e apparecchi straordinari per acquisire funzioni speciali. Sono pochi gli spiragli di serenità in questa versione live (più pixel) del celeberrimo manga cyberpunk di Masamune Shirow, come del resto lo era quella visionaria avventura cyberpunk tradotta in cartoni animati in due film (1995, 2004) dal grande Mamoru Oshii (che detto en passant ha poco da invidiare al più celebrato in occidente Miyazaki). Fantasmagorici set quasi sempre virtuali (addizionati dal 3D), vero spettacolo di tecnologia e look d’avanguardia, sono teatro di un “fanta-action-noir metropolitano” non propriamente evoluto (del resto la storia è stata concepita nel 1989, quindi su questo piano praticamente in epoca semi-primitiva) e facilmente decifrabile, nonostante le complicazioni-esche della trama. Ma qui la cosa che conta nella seconda regia di Rupert Sanders dopo il dimenticabile (ma con comunque sprazzi di ingegnosità visuale) Biancaneve e il Cacciatore del 2012, è lo show della tecnologia su e per lo schermo, con effetti speciali, gag visuali, colori e “magie” del computer realizzate da talenti “gasati” alla ricerca del nuovo.

Il messaggio è profetico e inquietante (“tu sei quella che un giorno tutti diventeremo” dice la creatrice dottoressa Ouelet a Mira, che risponde: “non sa quanto questo mi fa sentire sola”) e la DreamWorks (e c’entra anche Steven Spielberg) ha provvisto a internazionalizzare e magari “rasserenare” il prodotto, immettendo – non senza polemiche tra i fan duri e puri – star occidentali. In compenso la burrosa Scarlett Johansson, Takeshi Kitano, Michael Pitt e Juliette Binoche fanno a gara a chi è più monoespressivo; d’altra parte: davvero della recitazione importa a qualcuno? A queste profondità, l’unico fin dell’autore è la meraviglia, un caleidoscopio di immagini e suoni a pronta esplosione e consumo.

Massimo Lastrucci

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