GIORGIO PASOTTI RACCONTA IL SUO DEBUTTO ALLA REGIA CON “IO, ARLECCHINO”

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Dal debutto alla regia al suo atto d’amore verso il teatro, dalla televisione “buona” alla cultura come rinnovamento anche economico, fino ad Arlecchino come simbolo di una cultura che gli italiani hanno dimenticato: intervista a 360 gradi a Giorgio Pasotti sul suo nuovo film Io, Arlecchino, da oggi in sala per Microcinema

PasottiUn atto d’amore verso il teatro e la tradizione culturale. Sono queste alcune delle sensazioni che si percepiscono guardando Io, Arlecchino, debutto alla regia di Giorgio Pasotti e Matteo Bini, che già dal titolo svela allo spettatore i propri intenti. Recuperare l’eredità e la tradizione insita nel personaggio della famosa maschera bergamasca del ‘500 per attualizzarla ai giorni nostri.

Pasotti, dopo anni passati tra cinema, piccole schermo e teatro nella sola veste di interprete, passa dietro la macchina da presa per portare al cinema la Commedia dell’Arte attraverso l’omaggio ad Arlecchino che si fa metafora di risveglio dalla crisi personale contemporanea dell’uomo, raccontando, al tempo stesso, un rapporto padre/figlio nel quale la maschera ha simboleggiato per anni una distanza emotiva e fisica tra di due e che si trasforma nel corso della pellicola nel collante che ricuce il legame. Ci aveva già provato Laura Chiassone con Tra cinque minuti in scena, pellicola a metà strada tra documentario e finzione, a portare sul grande schermo il teatro e il dietro le quinte della preparazione di uno spettacolo al quale affiancava la storia personale e reale dell’attrice protagonista e del suo rapporto con l’anziana madre malata.

Io, arlecchinoSe nel docu-film della Chiassone il teatro era il pane quotidiano della sua protagonista, in Io, Arlecchino il personaggio di Pasotti subisce una metamorfosi interiore che lentamente lo porta a calcare le assi di un teatro per cercare un filo invisibile che lo leghi ancora al padre e per liberarsi, grazie alla prorompente schiettezza della maschera, della prigione di falsità e infelicità nella quale si era trincerato nella sua vita personale e professionale. Abbiamo intervistato il neo regista per farci raccontare com’è nata l’idea del film, da oggi in sala grazie a Microcinema.

Guarda il trailer qui!

io_arlecchinoIo, Arlecchino è un lavoro a quattro mani. Com’è stato lavorare allo stesso progetto con Matteo Bini? Ci sono state divergenze nel modo ci concepire la storia e la sua messa in scena e com’è stato ritrovarsi sul set nella duplice veste di attore e regista?

La regia a quattro mani, in realtà, è stata una mia richiesta. Sapendo di dover anche recitare nel film non avevo la presunzione di dire “faccio tutto io”. Avevo la necessità di avere una persona accanto con la quale confrontarmi e l’ho trovata in Matteo Bini, che ha uno sguardo poco italiano dato che lavora a Londra. Si è portato sul set, dal direttore della fotografia al montatore, tutta una troupe professionale straniera che ha lavorato al film senza quella pesantezza che una persona potrebbe aspettarsi da una storia come quella su Arlecchino o sul teatro. Il fatto di aver utilizzato, per i ruoli chiave, figure professionali straniere è voluto perché unire la tradizione della maschera con professionisti italiani avrebbe fatto sentire loro un peso e una responsabilità troppo forti. Personalmente, ho sempre sentito in me una certa facilità nel dirigere gli attori perché lo faccio prima di tutto su me stesso. Sono io il primo regista di me stesso anche quando recito. La direzione degli attori è una cosa che poi ho sempre amato fare.

Il tuo film sembra un atto d’amore verso il teatro e la figura di Arlecchino. Il titolo mi fa pensare al “Madame Bovary c’est moi” pronunciato da Gustave Flaubert, una vera e propria rivendicazione d’intenti. La pellicola è anche uno strumento per avvicinare una fetta di pubblico al mondo del teatro, mostrando il dietro le quinte della nascita di uno spettacolo e i valori universali rappresentati dalla maschera bergamasca grazie anche ad un cast in parte popolare nel piccolo schermo?

Gli attori che abbiamo scelto li avevamo già in mente in fase di scrittura. Roberto Herlitzka era secondo me l’unico che avrebbe potuto interpretare uno storico Arlecchino. Siamo stati fortunati perchè tutti gli attori ai quali abbiamo sottoposto il copione hanno colto la sfida. Non è soltanto un omaggio al teatro che nasce da un mio profondo amore verso lo stesso. Il senso del film è legato più alla tradizione in generale, alla nostra cultura della quale siamo ricchi. C’è un’affermazione del compositore Gustave Mahler che trovo perfetta per racchiudere il senso del film. Lui dice che la tradizione non è un cimelio da ammirare ma è un fuoco vivo da far passare di mano in mano. Questo per me è assolutamente vero, specie in un periodo come questo nel quale credo sia giusto recuperare nella nostra cultura e nella nostra storia un senso d’identità che abbiamo perso. Siamo bravissimi a dimenticare cosa ci ha reso così grandi nell’arte. Mi incuriosiva fare un film sull’identità, sul passaggio di tradizione di padre in figlio.

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Roberto Herlitzka e Giorgio Pasotti

Racconti un rapporto padre/figlio, la malattia e la perdita di un genitore con toni misurati, non calchi mai la mano a facili sentimentalismi.

Il progetto era proprio quello di fare un film semplice con una storia e una sceneggiatura altrettanto semplici che raccontassero con delicatezza argomenti forti come posso essere la morte di un padre, la malattia o lo scontro tra la tradizione della commedia dell’arte e la televisione. Nelle opere prime, specialmente in Italia, molti registi o attori che si mettono dietro la macchina da presa sentono la necessità di sfruttare l’occasione per farne un’esercizio di stile o stupire con movimenti di macchina e vari effetti. A noi questo non interessava, eravamo per la semplicità e per il cercare di stupire lo spettatore in altro modo, magari facendo piangere laddove solitamente si ride e viceversa, come, ad esempio, nelle scena del funerale.

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Giorgio Pasotti, Valeria Bilello e Roberto Herlitzka nel film

 Il gruppo di attori amatoriali ai quali fa capo Giovanni, grande Arlecchino del teatro italiano, fa le prove nella piccola Chiesa del paese pur di avere uno spazio per poter creare. A Roma, in questi anni, abbiamo assistito ad una lotta per rivendicare il diritto dei cittadini e degli artisti di avere dei luoghi dedicati all’arte e alla cultura. Polemiche a parte, basta pensare al Valle Occupato o all’America Occupato. Da attore come vivi questa realtà fatta spesso di un disinteresse delle istituzioni che sembrano non rendersi conto dell’importanza di spazi dedicati alla creazione e alla rappresentazione dell’arte in ogni sua forma?

Chi governa ha sempre pensato alla cultura come un rubinetto a fondo perduto, un flusso di soldi che uscivano a vuoto, senza capire che invece la cultura potrebbe essere una forma di guadagno e rinnovamento economico. Non si capisce per quale strano motivo la politica italiana guarda all’arte come un debito perenne senza tutelarla, come fanno in Francia, con leggi adeguate. Ciò che il Governo passa al cinema italiano oggi è inferiore a quello che passa la sola regione della Baviera in Germania al mondo dello spettacolo. Questo dà l’idea della situazione nella quale si trova la cultura nel nostro Paese. La maschera di Arlecchino è famosa in ogni angolo del mondo, dalla Cina all’Africa, e io sono la prima persona che l’ha trasposta al cinema. Questo non lo dico per vantarmi, anzi, lo dico perché lo trovo assurdo. Se gli americani avessero la nostra cultura e Arlecchino fosse una loro maschera probabilmente avrebbero fatto cartoni animati, serie tv e film per omaggiarla.

io arlecchinoIl tuo personaggio è un noto presentatore tv che sfrutta e spettacolarizza il dolore altrui senza offrire contenuti al suo pubblico. Il film è anche un velato atto di accusa verso un certo tipo di televisione che negli anni ha contribuito ad appiattire il livello culturale di questo Paese?

C’è una televisione che amo e che ho anche fatto. Non ho mai fatto una distinzione cinema/tv/teatro. Ho sempre distinto tra prodotti buoni e prodotti non buoni. Ovviamente c’è un altro modo di fare intrattenimento che non solo non mi piace ma che trovo diseducativo. Invece chi fa questo mestiere dovrebbe avere un senso di responsabilità nei confronti degli spettatori ed educarli. Andare in televisione a spiattellare i propri sentimenti e lasciarsi usare è un fatto che moralmente trovo discutibile e non andrebbe permesso. Fa tutto parte di un meccanismo che dovrebbe tutelare il mondo dello spettacolo, gli spettatori e i nostri figli che saranno gli spettatori di domani.

La maschera di Arlecchino assume più valenze nel corso del film, non è solo una riscoperta di una tradizione ma anche un passaggio di testimone, un’eredità tramandata di padre in figlio. Com’è stato riadattare questa maschera ai giorni nostri dandogli così tante sfumature?

Non è stato facile. Il progetto ha avuto una genesi molto lunga proprio in fase di stesura. Volevo raccontare questa maschera ma non dal punto di vista storico né mostrando la nascita del mito di Arlecchino. Mi sono chiesto come sarebbe potuta essere contestualizzato all’oggi e ho usato la maschera come simbolo di una cultura che gli italiani si sono dimenticati. Lo stesso Ferruccio Soleri che ha dedicato tutta la sua vita al teatro interpretando Arlecchino, fa tour mondiali con il tutto esaurito in Cina e Canada ma non riesce a trovare uno spazio neanche nella sua Milano per potersi esibire. C’è una battuta nel film che ho difeso. É quella in cui il protagonista parla dell’Amleto di Shakespeare sottolineando quanto ancora sia di moda e invece il povero Arlecchino, che è ancora più antico, è stato dimenticato. Al di là del fascino che porta con sè, Arlecchino è una maschera libera, anarchica che tanti potenti hanno cercato di ingabbiare senza riuscirci. Per me è importante conservare e riscoprire i suoi valori che sono la base culturale degli italiani.

In questi giorni sei impegnato con le prove di uno spettacolo teatrale. Di cosa si tratta?

Non torno a teatro da dodici anni e sentivo l’esigenza di tornare sul palco. Il testo l’ho trovato geniale. Si tratta di un’opera di Jordi Galcéran, uno scrittore spagnolo autore di questo lavoro attualissimo, Il metodo Gronholm, che racconta il vero criterio di assunzione dei top manager delle grandi aziende leader del mondo. Metodo che si basa su criteri molto cinici che sconvolgono il candidato con ricerche nella sua vita privata per scoprire se è veramente la persona adatta. Debutteremo il 27 e 28 a Napoli per la regia di Lorenzo Lavia e passeremo poi al Teatro Sala Umberto di Roma e al Manzoni di Milano l’anno prossimo.

Manuela Santacatterina