“HOMELAND 5”: TRA ATTUALITÀ, POLITICA E FINZIONE

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Quinto capitolo per Homeland, la serie targata Showtime che più di tutte riesce a raccontare l’evolversi della politica americana con continui riferimenti all’attualità uniti alla storia personale dell’ormai ex agente della CIA, Carrie Mathison

HomelandLa season première della quinta stagione di Homeland ha confermato, sempre se ce ne fosse il bisogno, che la serie creata da Howard Gordon e Alex Gansa, basata sull’israeliana Hatufim, è il miglior prodotto televisivo in grado di raccontare la politica americana ed il suo evolversi, intrecciando riferimenti alla stretta attualità con personaggi di finzione. Al centro della storia sempre lei, Carrie Mathison, l’ormai ex agente della CIA con disturbi bipolari, interpretata dall’ottima Claire Danes, capace di dare voce ad uno dei personaggi televisivi femminili più complessi ed affascinati del piccolo schermo. Un debutto in grado di dare vita ad una nuova era per la serie targata Showtime.

HomelandDopo il toccante finale della terza stagione, fatto di parole non dette e lasciate sospese, solo immaginate, tra l’agente della CIA e l’ex Marine Nicholas Brody (Damian Lewis), gli autori di Homeland, sono riusciti, nella successiva quarta stagione, partita in sordina e cresciuta episodio dopo episodio – a discapito per chi la dava per spacciata dopo un finale così netto – a ricostruire un tessuto narrativo forte, facendo maturare personaggi già ben delineati e dando spazio a chi invece era sempre rimasto nell’ombra, marginale. Ma è con questa quinta stagione che l’impianto la narrazione taglia i ponti con il passato della protagonista per proiettarsi verso una struttura svincolata dagli intrecci che avevano caratterizzato i primi tre capitoli. A detta stessa dei creatori, con questa quinta stagione, Homeland, infatti, si allinea con la struttura tipica di serie come The Wire e 24 dove, ogni capitolo, era concentro su un tema diverso ambientato in zone altrettanto differenti.

HomelandEcco dunque Carrie, a distanza di due anni dalla delusione per le scelte poco cristalline del suo mentore Saul (Mandy Patinkin), accettare e vivere in modo totale la sua maternità, lontana da Washington e dagli incarichi rischiosi della CIA, nella vibrante Berlino dove lavora come capo della sicurezza per la Fondazione privata di un filantropo tedesco, Otto Düring (Sebastian Koch). Inutile dire che l’idillio di una vita serena dura molto poco, con il passato dell’ex agente pronto a tornare come un’onda inarrestabile che la trascina nuovamente in campo. Se nella prima stagione il nemico da colpire era al-Qaida, portando la minaccia terroristica sul suolo americano grazie all’antieroe interpretato da Damian Lewis, risvegliando negli spettatori l’incubo vissuto dieci anni prima con l’attentato alle Twin Towers – mettendoli in relazione con un personaggio capace di creare emozioni contrastanti – il racconto meramente politico di Homeland si è poi evoluto attingendo sempre dall’attualità. Nel quarto capitolo veniamo infatti catapultati nella guerra tecnologica, combattuta sia sul campo, ma sempre più nelle stanze del potere, dove, tra droni, bombe intelligenti e satelliti, il nemico viene colpito da chilometri di distanza.

HomelandGià dal primo episodio di questa nuova stagione, non a caso ambientato a Berlino, Homeland si concentra a raccontare la guerra in Siria e l’espandersi del Califfato, tra esercitazioni nel deserto e reclutamenti che scorrono sul Web, mostrandoci in nuovo volto del terrorismo del XXI secolo, quello di matrice informatica e del suo insinuarsi nel cuore stesso del vecchio continente. Con una citazione neanche troppo velata al Datagate scaturito dalle ammissioni di Edward Snowden, ex tecnico della CIA recentemente al centro di Citizenfour, il documentario di Laura Poitras, si aggiunge poi un altro tassello, quello legato all’ingerenza dei governi nella privacy dei cittadini, in virtù di una maggiore sicurezza che va però contro il rispetto della sfera privata dei singoli elettori. Con una tale capacità di aderenza al reale, personaggi intensi ed una scrittura robusta e vigorosa, capace di alternare sequenze adrenaliniche a momenti riflessivi, è chiaro come il ritorno di Homeland spazzi via qualsiasi altro prodotto incentrato sulla narrazione politica, dall’esasperante Shonda Rhimes con Scandal allo sbiadito State of Affairs. Esclusione fatta per il machiavellico Frank Underwood in House of Cards.

Manuela Santacatterina