IL RING: “FARGO – LA SERIE”

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Sono passati quasi vent’anni tra l’uscita di Fargo, il film cult dei fratelli Coen, impregnato di azione e humor nerissimo, e l’omonima serie tv creata da Noah Hawley. Il primo è un capolavoro, apprezzato da pubblico e critica. La miniserie ha invece diviso gli animi. Ecco quindi due giornalisti di Ciak fronteggiarsi sul ring.

SÌ
di Massimo Lastrucci

FargoSono stagioni felici – anzi: felicissime – per il serial-crime tv. True Detective, The Bridge, The Killing, The Wire: tutte coniugano originalità a perfetta lubrificazione dei meccanismi e dei codici del (nuovo, almeno nella misura in cui prende le distanze dai modelli precedenti) genere. Tra questi Fargo occupa una posizione di assoluta eccellenza. Perché oltre a essere avvincente e perfettamente costruito nelle sue 10 puntate (Â«È un film di 10 ore » ribadisce il suo creatore/sceneggiatore – lo chiamano show runner – Noah Hawley), la miniserie solo vagamente ispirata al celebre film dei fratelli Coen (che, del resto, come Numi tutelari, dall’alto del ruolo di produttori esecutivi in qualche modo vigilano, consigliano, garantiscono) supera i confini del prodotto industriale, ben concepito e strutturato, per assestarsi in quelli del film d’autore. Un titolo che più che ai registi che si sono alternati (5 per due puntate ciascuno) o ai produttori, spetta al citato Noah Hawley (responsabile di Bones e attivissimo anche nel campo della letteratura) in tutto l’onere e gli onori dell’impresa voluta e faticata. Che non è affatto “basata su avvenimenti realmente accaduti” come, con civetteria citazionista che rimanda al film, i titoli di testa riportano, bensì raffinata operazione artistica-industriale del tutto di fantasia. Perché parliamo di prodotto d’Autore? Innanzitutto perché l’ottica con cui si è scelto di trattare un thriller è decisamente inusuale. Con almeno tre linee che si amalgano e fluiscono: la stupidità del male dalle conseguenze spropositate (e qui vengono in mente ancora i criminali imbecilli dei Coen, ma anche il loro sodale – un tempo – Sam Raimi di Soldi sporchi), l’orrore che attecchisce nel cuore della provincia, in questo caso il Minnesota del 2006 (assassini mostruosi come Lorne Marvo/Billy Bon Thornton o Mr.Numbers/Adam Greenberg e Mr. Wrench/Russell Harvard, violenza al parossismo, patologie e fanatismi religiosi), infine l’eccezionalità di fatti affrontati da personaggi molto comuni (sino a provocare effetti di comica bizzarria), serenamente quieti nel loro conformismo spicciolo, qualche volta stolido, ma sempre ottimisticamente propositivo. Non fa sconti l’affresco di Hawley a tutti i suoi personaggi, anche a quelli “buoni” e simpatici (come i due “poliziotti nonostante” Molly Solverson/Allison Tolman e Gus Grimly/Colin Hanks che si rivelano efficienti detective o giustizieri). Sono tutti incastrati in un meccanismo inarrestabile se non con la morte di qualcuno, cui non ci si può opporre in alcun modo. Un po’ come i crudeli ghiribizzi del destino che si accanisce sui più deboli e quindi più sventurati, magari trasformandoli (vedi lo splendido personaggio – e interpretazione – del mediocre che reagisce, del coniglio che ruggisce, Lester Nygard/Martin Freeman), fatto questo degno della migliore cinematografia dei Coen (da Blood Simple e Arizona junior ai più complessi Burn After Reading, A Serious Man o A proposito di Davis). Non ci ha quindi stupito la messe di premi e allori che Fargo e il suo team ha raccolto (Emmy, Golden Globe e via dicendo) e il fatto che la seconda stagione (ambientata con altri protagonisti nel 1979, quindi con solo Hawley e i produttori a far da collante) sia ai blocchi di partenza ci mette già l’acquolina in bocca.

NO
di Damiano Panattoni

FargoTre Emmy, altri tre Critics’ Choice Awards e due Golden Globes, tra cui quello per la miglior miniserie TV. Un palmarès incredibile che, unito all’accoglienza da parte del pubblico, hanno fatto di Fargo una delle serie-evento degli ultimi anni, pronta a tornare con la seconda stagione il 12 ottobre. Creata da Noah Hawley per l’HBO e basata sull’omonimo titolo dei Fratelli Coen, la serie ha sancito un (altro) importante passo che avvicina ancor di più il piccolo schermo al cinema ma, attenzione, abusando di un popolare detto, non è tutto oro quello che luccica. Infatti, l’antologica Fargo, è un bellissimo pacchetto, impreziosito da una coccarda ad effetto, contenente però una lenta e prolissa sorpresa. Continuando il paragone, naturalmente la coccarda è il pilot, diretto da Adam Bernstein, che, oltre introdurre la storia con enorme armoniosità, tantissimi dettagli e dialoghi eccellenti, sembrerebbe far capire che Fargo, nelle sue dieci puntate, sia stracolma di colpi di scena, chiavi narrative insolite e pericolosissima velocità. Senza considerare tutto l’appeal dei suoi due interpreti principali: Martin Freeman e Billy Bob Thorton. Insomma, con una (scopriremo furbesca) premessa del genere, lo spettacolo pare assicurato. Eppure. Tutte le serie, particolarmente quelle sviluppate in poche puntate, hanno un andamento pressoché simile: inizio forte, le tre successive altalenanti, la quartultima spettacolare, la penultima rivoluzionaria e l’ultima conclusiva oppure aperta. Uno schema quasi obbligato se non si vuol far perdere il filo agli spettatori o, per l’appunto, farli sprofondare in un totale sconforto. Cautela, le regole nell’arte sono spesso fatte per essere aggirate ma Fargo, queste norme, non solo le ignora, ma riempie gli episodi di una lentezza che non fa accadere pressoché nulla. Tutto il bello (e il cattivo, poiché la serie, comunque, parla dei cattivi) pare essersi dissipato nei primi 70 minuti, tutta la potenza rabbiosa sembra essersi ghiacciata insieme al paesaggio, lasciando gli altri tasselli della vicenda in ordine sparso e insensato, sovraccaricati di grottesco ma vuoti all’interno, sia per quanto riguarda la storyline base (le coincidenze dopo il classico ”un anno dopo”, sanno di commedia romantica) sia gli eventi di contorno. Poi, pazzesco pensare che nell’anno dell’eccelso True Detective, Fargo sia riuscito ad accaparrarsi i premi più importanti. Perché ottimi interpreti e ottime regie non fanno di una serie (o un film) un capolavoro: ci vogliono irrinunciabilmente empatia, ritmo, credibilità, palpito. E, soprattutto, ci vuole una storia che mantenga le bellissime promesse e che non finisca, stancamente, con un buco nell’acqua. O nel ghiaccio.