“Koudelka fotografa la Terra santa”: al cinema il film-documento sul celebre fotografo

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È divenuto celebre da giovanissimo fotografando la Primavera di Praga, l’invasione sovietica in Cecoslovacchia, dov’è nato 79 anni fa. A quarant’anni da quegli scatti Josef Koudelka, uno dei più importanti fotografi viventi, storico “occhio” dell’agenzia Magnum, viaggia tra Gerusalemme Est, Hebron, Ramallah, Betlemme e numerosi insediamenti israeliani dislocati lungo il confine con la Palestina per raccontare la profonda ferita che deturpa una terra sacra per l’umanità, un paesaggio violento da muri e recinzioni nati per proteggere, ma destinati a trasformare in prigioni i paesi che separano. Il suo lavoro dal 2008 al 2012 è testimoniato dal documentario Koudelka fotografa la Terra Santa realizzato dal regista e fotografo israeliano Gilad Baramè e nelle sale italiane distribuito da Lab 80 Film in collaborazione con Trieste Film Festival.

“Come si fa a trattare male paesaggi così belli?” si chiede sgomento Koudelka durante i suoi reportage, osservando gli operai al lavoro, impegnati a costruire 100 metri di muro in tre giorni. “A differenza delle persone, il paesaggio non può difendersi”. Nel documentario osserviamo il fotografo che studia con attenzione i suoi soggetti, attende con pazienza che la luce muti, cambia diverse volte posizione, prova e riprova fino a quando trova finalmente l’immagine che cercava. Lo scatto, rivelato poi allo spettatore, è soltanto l’atto finale e quasi liberatorio di un processo creativo lungo e sorprendente. Il colore del film si alterna al bianco e nero delle sue fotografie. Al centro delle foto però non c’è quasi mai la figura umana, ma il paesaggio offeso dall’uomo con cemento e filo spinato. “All’improvviso ho scoperto il muro – dice il fotografo all’inizio del documentario – sono cresciuto dietro al muro”. Non c’è neanche la violenza che caratterizzava le foto scattate nella Praga calpestata dai carri armati. Il conflitto resta fuori campo, sebbene chiaramente suggerito da tutte le “barriere di protezione”.

Koudelka torna nei luoghi dove in passato aveva già scattato e confronta, immagina, cerca di perfezionare le sue fotografie. “Studia profondamente le sue fotografie – dice il regista – e analizza altrettanto meticolosamente i cambiamenti del paesaggio. Porta con sé quelle che considera le sue migliori immagini e cerca di perfezionarle con i nuovi scatti. Quando sente di essere arrivato al punto in cui non potrebbe fare di meglio, allora scatta e procede con l’immagine successiva. Dopo cinque anni di lavoro con lui mi sono reso conto che per ritrarre questo artista unico e il suo singolare processo creativo avrei dovuto adottare il suo punto di vista. In ogni occasione ho studiato i suoi movimenti, i luoghi e le situazioni che catturavano la sua attenzione, la pazienza e la dedizione che metteva per cristallizzare il singolo momento. Gradualmente ho imparato come disegnare la cornice intorno a Koudelka. Ho imparato a guardare come lui”.

Obiettivo di Koudelka è quello di mostrare alle persone ciò che non hanno mai visto. In questo caso, concentrandosi su barriere, recinzioni e gabbie che rievocano la storica “cortina di ferro”, il fotografo riflette anche sull’identità di chi decide di lasciare la propria terra per conoscere quello che c’è al di là dei muri e invita a mantenere una sana rabbia con la quale denunciare violenze e abusi. “Per fortuna ci sono paesaggi che non si possono toccare – dice nel film davanti a un panorama mozzafiato – ma non vale la pena fotografarli, solo goderseli”.

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