LA SOLITUDINE DEL NUMERO PRIMO

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ShameC’è una sequenza di Shame che non riesco a dimenticare. Non è la più importante, nella storia. Ma quel carrello che accompagna Michael Fassbender durante una corsa nella notte newyorchese è una pagina di cinema che resta nella memoria. È difficile spiegare perché, nulla di epico o di drammatico. Però quel jogging notturno in una città livida e muta, con la dolce uniformità del movimento in orizzontale del carrello, racconta una solitudine struggente, un dolore indicibile. Shame è, per me, un film bellissimo. Mi ha fatto venire in mente Eyes Wide Shut e non solo per l’utilizzazione del sesso come linguaggio della disperazione ma per l’atmosfera, le luci, i colori. Film da vedere con il cappotto, tanto trasmettono freddezza. Però entrano nel cervello, lasciano le loro tracce nella memoria, fanno pensare. Shame

Shame è un film sulla solitudine dell’uomo moderno, sulla difficoltà di trovare relazioni umane capaci di scaldare una vita e darle un senso. Esauriti i grandi sogni collettivi, l’essere umano del Duemila si trova al centro di un sistema complesso e infinito di relazioni. Tante quante mai prima nella storia della civiltà. Tutto e tutti sono legati in una rete di contemporaneità quasi asfissiante. Non più le lettere e l’ attesa. Tutto è immediato e bulimico. Tutti dicono che si vogliono bene, TVB, tutti si baciano sulle guance quando si incontrano, tutti sono amici, come su Facebook. Eppure la vita va consumata come fosse una tavoletta di cioccolata, con ingordigia sfrenata. Shame

Brandon, il protagonista di Shame, fa così. Il sesso è per lui un’ossessione violenta e disperata, nulla a che vedere con il piacere, il gioco, la fantasia. È un lavoro, o una funzione corporale. O, più evidentemente, un modo per riempire il vuoto, per dimenticare la solitudine. L’altra protagonista, la sorella Sissy, è anch’essa vittima di una vita senza sentimenti. Chissà cosa c’è nella loro vita, nel tempo della loro storia, che li ha fatti così. «Non siamo cattivi, veniamo da un posto cattivo», si dicono. Ma universalizzando la loro storia il regista sta dicendo che forse tutti, ormai, vengono da un posto cattivo, che forse non è un luogo ma un modo di vivere e consumare il proprio tempo. Shame racconta un tempo stordito, troppo vuoto e troppo pieno. Steve McQueen, che già aveva stupito con Hunger, vero capolavoro, è un artista contemporaneo. Gli interessa il corpo, perché lo considera un linguaggio e uno specchio. E, in questo tempo, la metafora della solitudine.

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