L’INCONTRO: AARON SORKIN

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Da Shakespeare a Joni Mitchell passando per Virginia Woolf: cronaca di una mattina a Londra trascorsa con lo sceneggiatore più discusso di Hollywood

DI ANDREA MORANDI

 

Aaron Sorkin e Danny Boyle
Aaron Sorkin e Danny Boyle sul set di “Steve Jobs”

«In questo momento io sto cercando di essere sincero con lei, ma nessuno può negare che sia anche una performance: c’è un registratore acceso e le sto vendendo un film che, onestamente, spero i suoi lettori vadano a vedere ». Comincia come una semplice intervista, ma con il passare dei minuti l’incontro con Aaron Sorkin a Londra diventa un monologo su vita, teatro e ambizione, con lo sceneggiatore che parte da Steve Jobs – il film che ha scritto e per cui ha vinto un Golden Globe, ma è stato inspiegabilmente ignorato dall’Academy – per ritornare all’infanzia, a quando i suoi genitori lo portavano a teatro a vedere cose che non capiva. «Avevo nove anni, e mi ritrovavo seduto a vedere pièce che non potevo comprendere, come Chi ha paura di Virginia Woolf?. Eppure la mia passione per le parole è nata proprio lì, sono diventate un’ossessione e oggi, da sceneggiatore, il loro suono ha per me la stessa importanza del loro significato. Passo ore a calcolare la metrica, a ripetere tutte le battute da solo per capire come suoneranno ».

Oscar per The Social Network, quattro serie scritte (recuperate Sports Night se potete ) amato perfino da Quentin Tarantino, che ha ammesso di aver rivisto tre volte il suo The Newsroom, Sorkin ha deciso di mettere mano al mito Jobs in un’opera tanto discussa da essere apertamente osteggiata per mesi dalla vedova del fondatore della Apple, Laurene Powell Jobs, al centro di scambi di mail proprio con lo sceneggiatore, mail poi diventate di pubblico dominio dopo l’hackeraggio ai danni della Sony. «Ma io sono sempre stato sincero: non avevo alcun interesse nello scrivere un biopic, la vita di Jobs dalla nascita alla morte, e così l’ho fatto a modo mio. Tre atti, come una pièce teatrale, tre momenti chiave nella sua vita. Woznika lo ha visto e lo ha amato, Tim Cook prima di parlarne deve vederlo ». Il risultato – come spesso accade per Sorkin – è folgorante, un trattato su potere e paternità capace di mescolare Shakespeare, Bob Dylan, le copertine di Time e addirittura Joni Mitchell con la sua Both Sides, Now al centro di un toccante dialogo tra Steve Jobs e la figlia Lisa. «Perché Lisa è tanto presente nel film? Perché sono padre anch’io, ho una figlia (Roxy, di quindici anni, nda) e, onestamente, leggendo la storia di Jobs nel libro di Walter Isaacson non riuscivo a capire come lui avesse potuto trattarla così, le ha negato la paternità per anni. Quello è stato uno dei punti di passaggio per entrare nel mondo di Jobs. E cominciare a scrivere. Poi mi sono fatto una domanda ».

Quale?
Perché quando è morto lo abbiano onorato e celebrato così? Non ricordo una simile mobilitazione e commozione generale dai tempi dell’assassinio di John Lennon. Sono partito da lì per capire dove fosse il genio.

Lo ha capito?
Vediamo: vede questo? (si sfila l’iPhone dalla tasca, nda). Lo uso come un telefono, ci leggo le mail, mando i messaggi, per me è solo uno strumento, un ottimo strumento, certo, ma uno strumento. Ma poi accendo la tv e vedo gente che fa anche tre giorni di fila per aspettare la nuova versione e penso che dev’esserci del genio per riuscire a creare questo…

Aaron Sorkin
Aaron Sorkin parla al cast di “The Newsroom”

Dal Jack Nicholson di Codice d’onore a Mark Zuckerberg in The Social Network passando per i presidenti degli Stati Uniti in West Wing e Il presidente: scorrendo i titoli della sua filmografia si direbbe che lei ha un’ossessione per gli uomini potenti…
In realtà non ci ho mai pensato, cerco di non riflettere su quello che ho fatto, ma in effetti è così. Dei presidenti mi piace l’idea che non siano re o nobili, ma persone normali che per un certo periodo di tempo dispongono di un enorme potere. Mi affascina il pensiero che nello spazio di poche ore possano passare dal parlare con i loro figli di cose banali a prendere una decisione che può influenzare la vita di milioni di persone. Di Zuckerberg invece mi colpì il passaggio da semplice ragazzo del college ad amministratore delegato di un’azienda grande quanto un Governo.

Cos’ha chiesto a Michael Fassbender per trasformarsi nel suo Jobs?
Fin dall’inizio io e Danny (Boyle, il regista, nda) siamo stati molto chiari: nessun tentativo di imitare gesti o movimenti. Non volevamo un sosia come quelli di Elvis Presley o Winston Churchill. E così ha fatto Michael che ha accettato la sfida e, io credo, per un motivo molto semplice: tutti i grandi attori amano essere messi in difficoltà. E verso la fine delle riprese, a un certo punto ho guardato verso il set e lui – con il taglio di capelli giusto, gli occhiali e il dolcevita nero – era diventato Jobs.

Il suo modo di scrivere è ormai talmente famoso che spesso si dice che un film è scritto da Aaron Sorkin per convincere il pubblico. Che effetto le fa?
Dal punto di vista del mio ego un effetto meraviglioso (ride, nda), ma nel corso degli anni ho imparato a non fidarmi troppo del mio ego, quindi, ne sono felice, ma non voglio che la gente guardi Jobs e pensi a me. Non avrebbe senso. Vorrei però che si capisse una cosa: senza buone sceneggiature alla base è impossibile fare grandi film.

 Aaron Sorkin
Aaron Sorkin e David Fincher

La sua prima pièce, Removing All Doubt, è di trent’anni fa. Quanto è cambiato il suo modo di scrivere in tutto questo tempo?
Uno degli aspetti che amo del mio mestiere è che invecchiando si migliora, a differenza di altre cose, quindi scrivo meglio ora, senza dubbio. Per scrivere devi avere talento, una predisposizione, ma poi vale la lezione del maestro di violino: più ti eserciti e più suonerai meglio. È davvero così. Ma in questi trent’anni ho capito tante cose: nel mio ufficio ho due poster, uno della pièce di Codice d’onore, con il mio nome scritto a caratteri cubitali, e l’altro della versione cinematografica, con i nomi di Jack Nicholson, Tom Cruise e Demi Moore e il mio piccolo nei crediti in basso. Ecco, quella è la differenza tra il teatro e Hollywood.

In Steve Jobs le parole hanno un ritmo serrato, un action movie di parole.
Ad alcuni sceneggiatori piace scrivere inseguimenti d’auto, diciamo che questa è la mia versione di quegli inseguimenti. Quando scrivo, interpreto ogni parte, studio la metrica e il suono di ogni parola. Per me è fondamentale.

Come un rapper…
Sì, in un certo senso possiamo dire così, non è sbagliato il paragone.

Teatro, cinema, televisione: dovesse scegliere?
Nonostante sia riuscito ad avere una grande carriera nel cinema e nella tv, la mia identità si è formata in teatro e io sono ancora lì, dove una sillaba può cambiare il senso di un’intera frase. Quella è la mia musica: dialoghi, ritmo, tempo, toni.

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