“L’insulto”, intervista a Ziad Doueiri: «Il mio film sul Libano rispecchia un mondo arrabbiato»

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Beirut, gli Stati Uniti, un mondo diviso e quei consigli cinematografici da non perdere: ecco cosa ci ha raccontato Ziad Doueiri, regista del potentissimo L’Insulto, al cinema dal 6 dicembre

«Prima di iniziare vi dico una cosa: voglio che mi facciate qualunque domanda vogliate, non vi dovete censurare. Unica cosa: proverò anche a rispondere a domande filosofiche, ma non so se ci riuscirò… Non voglio che le mie affermazioni risultino pretenziose». Esordisce così, seduto di fronte a noi, un regista, potremmo dire, fuori dal normale. Non fosse che è stato camera assistant di un certo Quentin Tarantino, per titoli come Pulp Fiction o Le Iene; non fosse che la sua storia personale è, di per sé, un film in attesa di essere diretto.

Nato in Libano, trasferitosi negli USA – dove si laurea alla San Diego State University – durante la Guerra Civile Libanese e tornato a Beirut per fare il suo cinema, Ziad Doueiri è uno dei filmmaker contemporanei più apprezzati, capace di mixare uno stile narrativo hollywoodiano a storia nate e costruite su di un mondo completamente agli antipodi. Lo ha già fatto nel 2012, con il pluripremiato The Attack, e torna a farlo oggi con il bellissimo L’Insulto – candidato dal Libano come Miglior Film Straniero ai prossimi Academy –, presentato all’ultima Mostra di Venezia dove, oltre all’applauso unanime di critica e pubblico, ha fatto vincere al suo interprete Kamel El Basha la Coppa Volpi per il Miglior Attore. La vicenda del film (in sala dal 6 dicembre grazia a Lucky Red) parla di Toni e Yasser che, dopo un banalissimo incidente, si ritrovano in tribunale, in una disputa divenuta un grosso affare di stato. C’è, infatti, lo scontro tra due culture e religioni diverse: Toni è libanese cristiano, Yasser un palestinese. Il processo diventa così un’arena fatta di fazioni, dove vinti e vincitori, passato e presente, diventano un’unica cosa.

Come è nata l’idea del film?

Tutto è partito da un fatto che mi è capitato, innaffiando le piante ho bagnato un operaio sotto di me, prendendoci poi a male parole. Da qui mi è venuta l’idea per il film: cosa sarebbe successo se da un incidente stupido si arrivasse ad un processo nazionale? A quel punto ho cominciato a scrivere i dialoghi: ogni idea portava ad un’altra idea, capendo subito che sarebbe divenuto un dramma giudiziario.

Ci sono elementi autobiografici?

Ho cominciato a scrivere il background dei due protagonisti, con un pizzico di elementi personali. Del resto, quello che sentono loro, l’ho sentito io nella mia vita. É stato un processo organico: le scene e i dialoghi venivano fuori naturalmente, senza costruzioni. Poi, ho chiesto consulto a mia madre, avvocato, che è divenuta consulente legale del film. Quando mia moglie, Joëlle Touma, ha letto il trattamento, ha voluto partecipare alla sceneggiatura. Lei ha scritto la parte dell’avvocato difensore del palestinese, e io ho scritto la parte del difensore cristiano. Calcolando che mia moglie ha alle spalle una famiglia cristiana di destra e io una famiglia musulmana di sinistra…

Un film che tratta i retaggi di un ingombrante passato.

È un film sul presente, fondamentalmente. Sicuramente c’è il passato, ma da un punto di vista personale è strettamente legato al presente. Ho riscritto L’Insulto in modo molto più indignato, dopo che il mio precedente film, The Attack, è stato boicottato dai gruppi pro-Palestina, quelli di destra, in Libano. Del resto, questi gruppi ignorano quanto la mia famiglia abbia fatto per la Causa Palestinese. Insomma, si sono scagliati verso di me senza sapere come stanno le cose, su un piano esclusivamente personale. Questo film è stato un atto di rabbia e di risposta.

Si aspettava la candidatura all’Oscar da parte de Libano per il Miglior Film Straniero?

Non lo so, ma sto capendo che, dopo le proiezioni alla Mostra di Venezia, negli Stati Uniti, poi a Toronto, in Egitto, in Tunisia e in Spagna, il pubblico si identifichi con questa storia, con questo film. Tutto ciò, allora, mi suggerisce che il mondo sta subendo dei cambiamenti fortissimi. Prendi l’America, in California sono arrabbiatissimi, c’è questa era pre e post Trump, la spaccatura è enorme. Io non l’ho girato per un colpo di genio e non mi sono preoccupato di andare ad analizzare questa o quell’altra situazione. Però, fin ora, le reazioni sono state tutte unanimi, di profonda vicinanza.

Ne L’Insulto la parola è essenziale, facendo da eco agli aspetti più teatrali che ci sono. Quanto era già consapevole di dare al film questo impianto?

Fin da subito sapevo che la pellicola dovesse avere come cornice il tribunale. È nato così, con la successiva sfida di capire effettivamente quante scene fossero poi ambientate in un aula. Oggi i legal drama non vanno più tanto di moda, dopo che hanno cavalcato l’onda tra gli ’80 e i ’90. Certo, è stato un rischio, ma è stato il frutto di quello che sentivo. Del resto, il trucco per tenere alta l’attenzione è focalizzarsi sulle psicologie dei personaggi, così ogni scena rivela qualcosa in più di loro, scoprendoli poco a poco.

… Infatti L’Insulto ha uno stile cinematografico estremamente coinvolgente.

Avrei voluto utilizzare per il film il sistema giudiziario americano, con la giuria popolare, ma non era credibile perché in Libano non esiste un modus operandi del genere. Su consiglio di mia madre abbiamo messo nel film un collegio giudicante, con tre giudici invece che uno. Volevo che le decisioni finali fossero prese a maggioranza. Ho attinto dai film che amo di più, anzi, che consiglio spassionatamente: il coreano Memories of Murder di Bong Joon-ho e The Insider di Michael Mann. E un’altra cosa, per questo film, nella scena del ritorno in macchina, ho citato quel gioiello animato che è Rango di Gore Verbinski. Che grande opera!

Damiano Panattoni

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