MOISÈ CURIA, GIOVANE RIVELAZIONE DI “LA NOSTRA QUARANTENA”: «SONO UN CAVALLO SELVAGGIO »

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L’attore cosentino ventiquattrenne si racconta: dal successo della serie televisiva Braccialetti rossi al cinema d’autore di Ciprì e dei Taviani, per poi approdare allo sperimentale doc-non-doc di Marcias

La nostra quarantenaDelicatezza e determinazione. Sono queste le qualità di Moisè Curia che emergono a pelle. Il giovane attore di Rossano (Cosenza) è la rivelazione di uno dei film italiani più originali dell’anno, La nostra quarantena di Peter Marcias, sperimentale ibrido fra finzione e documentario, in approdo oggi al cinema Beltrade di Milano dopo una fortunata circuitazione in Calabria e Sardegna. Uno sguardo personale sull’immobilismo italiano a partire da un vero fatto di cronaca avvenuto nel maggio 2013, l’autoreclusione di quindici lavoratori marocchini sulla nave Kenza ancorata nel porto di Cagliari, per difendere il proprio lavoro.
Il cinegenico ventiquattrenne Curia, giunto alla notorietà grazie alla serie ospedaliera della Rai Braccialetti Rossi (ha un drappello di fan sfegatate che ricoprono di biglietti e cuoricini gli alberi davanti a casa sua e postano video su YouTube con messaggi d’amore), interpreta uno studente universitario che si vede assegnare da una sua docente (Francesca Neri) una ricerca sull’episodio cagliaritano.

INTERVISTA A MOISÈ CURIA

La nostra quarantena è stato visto in Calabria da un migliaio di persone in quattro giorni. Come hai vissuto questo piccolo successo nella tua terra?

Sono molto legato alla Calabria perché ci sono nato, sono andato via quando avevo 14 anni. La mia terra ha risposto molto bene. Mi piace tornarci, percepisco il senso di appartenenza. L’abbiamo presentato a Rossano, nella mia città. Il cinema risente della crisi, smuovere così tanta gente è stato bello.

La nostra quarantenaCome sei entrato nel progetto?

Conoscevo Peter per il suo precedente film, Dimmi che destino avrò. Mi piace il suo stile che unisce finzione e documentario: lo si tende a chiamare docufilm ma io lo vedo come un film, sia la parte di finzione che quella documentaristica camminano allo stesso modo. La difficoltà stava nel raccontare la vita, un personaggio che le persone potevano vedere per strada.

Quanto di Salvatore c’è in te? Percepisci la sfiducia e lo sperdimento delle nuove generazioni come il tuo personaggio?

In Salvatore di me c’è tantissimo. Mi sono messo un po’ a nudo, mi sono raccontato anch’io. Si vive questa mancanza di lavoro ma anche di credere nei sogni: molti smettono facilmente di crederci, non ci è più data la possibilità di sognare. In Italia c’è un po’ questo immobilismo, questa staticità, quest’idea che bisogna per forza avere una raccomandazione. Quando incontravo i ragazzi in Calabria dicevo loro che se ce ne andiamo tutti facciamo sparire una terra. Se invece ci uniamo e diamo un messaggio positivo forse qualcosa si crea, specialmente tra i giovani. Non ci si può arrendere.

La nostra quarantenaChe rapporto si è instaurato tra te e Francesca Neri sul set?

Ci siamo trovati subito in sintonia, mi ha messo a mio agio. È una veterana del cinema, non si può che guardarla con gli occhi di un ragazzo che vuole imparare. Non ci sono mai stati conflitti o divergenze, eravamo d’accordo su tutto. C’è stata una sorta di reverenza nei suoi confronti, per un attore giovane è uno degli idoli: chi non vorrebbe lavorare in Carne Tremula? Ma quando reciti devi scindere e non vederla come un mostro sacro. Mi sono legato molto a lei.

Mi ha colpito la scena dell’incontro delle suore sulla spiaggia, come è nata?

È molto particolare e onirica. È nata lì per lì, non era sulla sceneggiatura. Peter voleva che ci fossero queste attrici sarde di teatro sperimentale. Salvatore si sta riposando sulla spiaggia e conosce queste suore un po’ strane e decide di filmarle. È un momento per smorzare il film.

Hai esordito nella web serie Butterfly, di che cosa si trattava?

Era una serie sperimentale, non è mai andata online. Interpretavo il protagonista, Nicholas, ragazzo con una sorta di potere soprannaturale che doveva salvare la Terra da una minaccia in arrivo. È nata come un gioco tra noi amici dell’Accademia ma non l’abbiamo mai pubblicata, era più uno studio personale.

Il tuo esordio ufficiale al cinema è in Non è mai troppo tardi di Giacomo Campiotti…

Interpretavo Marcello, uno dei protagonisti. Non ha voglia di studiare e ha un pessimo rapporto col suo maestro Alberto Manzi, pensa di sapere già tutto.

Il successo è arrivato con Braccialetti Rossi, come lo vivi?

Ruggero è un finto cattivo, in fin dei conti è un buono. È arrivato questo successo improvviso, trovavo sotto casa questi ragazzi che facevano striscioni enormi e cantavano canzoni, mi chiedevano foto e autografi. Non ho realizzato subito questa cosa. La vivo molto tranquillamente, non come un punto di arrivo, faccio l’attore non per poter essere riconosciuto ma perché voglio dire qualcosa. Mia madre fa la casalinga, mio padre fa il muratore, se parlassero in pubblico nessuno li ascolterebbe. Io che sono una mosca bianca posso dire qualcosa e magari venire ascoltato attraverso i film. Mi reputo una persona molto umile.

Braccialetti rossiNella terza serie di Braccialetti Rossi ci saranno vari sviluppi sentimentali, soprattutto tra Leo e Cris. Qual è la tua ragazza ideale?

Non ho una ragazza ideale, mi piacciono le ragazze che sanno quello che vogliono, forti caratterialmente, non devono essere gelose perché bacio un’altra sul set. Sono un po’ un cavallo selvaggio, mi piace molto quest’idea di libertà, adoro viaggiare. Sono single.

Com’è stato lavorare con autori come Ciprì e i Taviani?

Per me sono degli idoli. Ciprì mi metteva a mio agio. I fratelli Taviani me li ricorderò per tutta la vita, sono stati grandi maestri per questo loro attaccamento passionale all’attore. Facevamo prove lunghissime, quasi teatrali. Arrivavamo sul set e sapevamo già cosa fare, dove e come si sarebbero mosse le macchine da presa. Sia Ciprì che i Taviani fanno pochissimi ciak.

Che ruolo hai nel nuovo film di Sindoni, Abbraccialo per me?
È un film molto bello, sarà presentato in anteprima all’Anica di Roma il 26 ottobre. Interpreto il protagonista, Ciccio, un ragazzo che soffre di disabilità mentale. È affetto da una sindrome dissociativa e non viene accettato dalla società. Da grande vuole fare il batterista, viene discriminato dagli amici ma per la madre farebbe qualsiasi cosa ed è l’unica che non lo reputa un disabile ma una persona come gli altri, solo un po’ vivace. Recitano anche Stefania Rocca, Vincenzo Amato, Giulia Bertini e altri, un gran bel cast.

All’ultimo Festival di Venezia hai vinto una menzione speciale al Premio Kineo per le giovani rivelazioni…

È un po’ un sogno per un attore, quando l’ho saputo ho urlato come non mai. Lì ho conosciuto Nastassja Kinski e Rupert Everett, un’esperienza bellissima.

Hai recitato molto a teatro, anche classici di Shakespeare e Cechov…

Farò a breve Novecento di Baricco che debutterà in Calabria e andrà in tournée. Mi piace molto il teatro, vengo da lì. Amo il contatto col pubblico, raccontare qualcosa attraverso il corpo e non solo con gli occhi, come di solito avviene al cinema.

Nuovi progetti cinematografici?

Dovrei fare un nuovo film con Isabella Sandri.

Roberto Schinardi