PAUL VERHOEVEN E “ELLE”: A CANNES RITORNA LO SCANDALO

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Alla fine degli anni ’80 il cinema sci-fi, post-apocalittico e distopico era giunto all’apice del suo percorso: George Lucas, James Cameron, Ridley Scott e Terry Gilliam lo avevo letteralmente riscritto, facendolo diventare il genere per eccellenza dedicato al grandissimo pubblico. Ma lo avevano anche prosciugato, perché dopo Star Wars, Alien, Terminator e Brazil pareva che nulla di tanto fantascientifico si potesse ancora raccontare. Eppure, come spesso accade nel cinema, è arrivato un olandese (dalla chioma) volante che riprese le regole dello sci-fi per applicarle, con una fortissima dose di brutalità, alla sua personale (e inconfondibile) visione della vita. Lui è Paul Verhoeven, regista di RoboCop, Atto di Forza, Starship Troopers e, naturalmente, colui che ha ideato l’iconico accavallamento di gambe di Sharon Stone in Basic Instinct.

Verhoeven, nei suoi film, che siano sci-fi o thriller, ha sempre mescolato temi, possiamo dire, spinosi e pericolosi: l’abuso di potere, il sesso e il dominio sessuale (con la donna che fa da vedova nera, da sesso fortissimo), la violenza, la religione e le discutibili etiche che derivano da essa, e il senso che può avere la legge al giorno d’oggi. Pensiamo, per esempio, al RoboCop del ’87 e con la sua metafora estrema ed estremizzata di giustizia. Del resto la cinematografia di Verhoeven è sempre stata borderline, ai confini del proibito. Ma pure eclettica, avanguardista, post-moderna. E oggi, all’età di 77 anni e dopo una pausa durata dieci anni (senza considerare lo sperimentale Tricked presentato a Venezia nel 2012, il suo ultimo film è stato Black Book, datato 2006 e ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale), il regista dello scandalo ritorna a Cannes – proprio dopo la presentazione di Basic Instinct nel ’92 –, pronto a turbare la platea e la giuria del Festival con il thriller Elle (i diritti di distribuzione in Nord America li ha appena acquisiti Sony Pictures Classics), girato a Parigi e interpretato da una torbida Isabelle Huppert.

Per il suo sedicesimo film Verhoeven ha preso spunto dal romanzo “Oh…” del francese Philippe Djian, raccontando così la storia di Michèle, una ”donna di ferro”, manager di una grande azienda di videogames (ancora una volta, il senso di reale e irreale tanto caro al regista olandese), con un figlio, un amante e sì, un violentatore che, intrufolandosi nella sua casa, ha abusato brutalmente di lei. Solo che Michèle non si sente una vera e propria vittima, anzi: inizia un’indagine su chi sia stato l’aggressore, instaurando con esso (e con la sua figura) una specie di caldissimo e scabroso gioco. Dunque, Paul Verhoeven che ripassa per Cannes nel segno della femminilità anti-dogmatica: prima la Sharon Stone di Basic Instinct e ora l’Isabelle Huppert dello spiazzante Elle. Due donne simili, che vivono però in due epoche diverse (quando l’ambiguità e i soldi facevano girare il potere, anni prima di lasciare il dominio al terrore) e in due realtà contrapposte (il primo esplicitamente statunitense, questo volutamente europeo).

Il cinema, da quel film che ha segnato una generazione, è cambiato del tutto: oggi, quell’accavallamento di gambe dichiarato e sexy non susciterebbe (per fortuna o per sfortuna) lo stesso stupore; eppure Verhoeven, tornato in Europa, ha saputo ancora una volta cambiare le carte in tavola, estrapolando la donna dall’ideale comune, posizionandola sul gradino più alto della piramide. Una figura di femme fatale in grado di ribaltare i ruoli e le leggi, che si scrolla di dosso qualunque etichetta. Senza paura di poter apparire spaventosa. Proprio come lui, che quando fu contattato da Spielberg per dirigere L’Impero Colpisce Ancora, gli fece vedere il controverso Spetters. Inutile dirvi com’è andata a finire.