DI PIERA DETASSIS
Sono stata pochissimo al Torino Film Festival, il tempo sufficiente per innamorarmi di alcune donne. E anche di un paio di pedule. Parto da queste ultime, naturalmente: le indossa Reese Whiterspoon in Wild di Jean Marc La Vallèe, siamo nel 1995, quando muore Jerry Garcia e un pezzetto di mondo alternativo se ne va con lui. Quelle pedule oggi son sostituite da scarpette tecniche, con camere d’aria e sponsor globali, ma è con quelle lì di cuoio brunito, collo alto a trattenere la caviglia e stringa colorata, che la nostra eroina (la vera Cheryl Strayed) parte a piedi a fare il Pacific Crest Trial per purificarsi da un lutto troppo devastante e dall’autolesionismo. È un film strambo ma intenso quello di Vallèe, tra flash, salti cronologici, e qualche apparizione di fantasma, ma la Whiterspoon è magnifica e quelle pedule sono per me il ricordo delle montagne trentine e della mamma che le incerava ogni fine inverno. Insomma, nel film risuona anche un po’ della mia storia. E c’è davvero voglia di scappare con la canadese e la pedula (che, però, se troppo stretta fa veri danni, come insegna il film) via via, lontano. Sapendo, come la protagonista, che bisogna poi tornare.
Reese è sorella in sventura – ma più contemporanea e dunque capace di resistere e ricostruirsi – delle donne divenute folli in The Homesman e trasportate dai territori impervi del West verso la civiltà dalla zitella Hilary Swank, che intende così salvarle dai mariti brutali o indifferenti e non s’accorge, nella sua apparente razionalità, di essere la più ossessiva e disperata di tutte. Al punto di chiedere aiuto per il viaggio al cinico ubriacone Tommy Lee Jones (anche regista del film oltre che debordante interprete) che s’adatta sotto minaccia e per 300 dollari, ma non sembra provare alcuna empatia per quelle povere donne ridotte al delirio dalla solitudine. Non c’è redenzione e il film, che un tempo avremmo detto ‘surwestern’, alterna odissea della pazza carovana con soprassalti surreali e fa molto l’istrione. Certo, non tutto torna ma un po’ di sconquasso stilistico è quello che ci vuole di questi tempi. E infatti Torino ha rivelato un’altra “folle”, dunque un po’ “santa”, l’artista Eleonora Danco con N-Capace. Titolo da equilibrista e con mille risvolti di senso, lascia un segno deciso ponendo domande, talvolta scostumate altre volte laceranti, a giovani e vecchi di questo nostro liquido paese. E come per il personaggio di Reese si intravvede in sottotesto il lutto dell’autrice per la madre, lo si avverte in quel titubante silenzio, il trattino che separa N da Capace.
La dissoluzione di una generazione di donne lavoratrici e invisibili è anche il tema del dritto e dei rovescio con cui Costanza Quatriglio incrocia in Triangle (premio Cipputi) il crollo di Barletta e l’incendio di New York del 1911, vittime sempre le lavoratrici. Proprio oggi, quando i diritti della classe operaia paiono fastidiosi cimeli del passato anche per la sinistra, non riesco a non stupirmi per la tenacia con cui procede Costanza (insieme intervistiamo Stephen Daldry sul Ciak in edicola), certamente la filmaker e documentarista di maggior talento in Italia. Da Terramatta a Con il fiato sospeso, una che, vivaddio, non dimentica.