PRIMA PAGINA

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Ci sono sempre due modi per affrontare le cose: uno seriamente e l’altro con l’arma dell’ironia. E non è detto che il primo sia sempre il più efficace, anzi, saper ridere con intelligenza aiuta ad essere più lucidi, persino spietati.

Billy Wilder li ha utilizzati entrambi nei suoi film, ma è indubbio che i risultati migliori li abbia ottenuti quando ha messo in scena storie imbevute di disincantato cinismo. Tra queste c’è senza dubbio Prima pagina con Walter Matthau nei panni di Walter Burns, astuto direttore del Chicago Examiner, e Jack Lemmon in quelli di Hildy Johnson, suo fidato inviato speciale, che ha deciso di lasciare il giornale per sposarsi. È la prima volta che Wilder accetta di girare un remake (si ripeterà nel 1981 con Buddy Buddy, suo ultimo film, tratto dal francese Il rompiballe con Lino Ventura e Jacques Brel), anche se poi lo adatta insieme al fidato I.A.L. Diamond. Ed è la terza versione di The Front Page, testo teatrale scritto nel 1928 da due giovani giornalisti, Ben Hecht (sceneggiatore dello Scarface di Hawks) e Charles MacArthur. In precedenza c’erano state quella di Lewis Milestone nel 1931 con Adolphe Menjou e Pat O’Brien e quella di Howard Hawks, intitolata La signora del venerdì, nel 1940, con Cary Grant e Rosalind Russell. E ce n’è stata una quarta nel 1987, Cambio marito di Ted Kotcheff, ambientata nel mondo del giornalismo televisivo, con protagonisti Burt Reynolds e Kathleen Turner.

Wilder mantiene l’impianto teatrale della vicenda mettendo al centro di tutto la sala stampa dove un gruppo di giornalisti è in attesa dell’esecuzione capitale di un poveraccio che ha l’unica colpa di avere delle simpatie sinistrorse. Il luogo e l’anno sono gli stessi di A qualcuno piace caldo, e cioè Chicago, nel 1929. Burns, vecchia volpe pronta a qualsiasi espediente pur di battere la concorrenza, si aspetta che Johnson gli scriva l’articolo della vita. Gli suggerisce persino di fotografare con uno stratagemma il condannato a morte sulla forca che da subito è stata mostrata in allestimento allo spettatore, venendo meno a qualsiasi codice deontologico e morale nel nome dell’informazione. Johnson non è un uomo migliore, ma si è innamorato di Peggy, una tenera pianista (una giovanissima Susan Sarandon) e questo sentimento lo induce a licenziarsi, nonostante Johnson le provi tutte per trattenerlo.

I giornalisti non sono mai stati amati dal regista, che già li aveva descritti con toni al vetriolo ne L’asso nella manica (1951), in cui un reporter arrivista interpretato da Kirk Douglas trasformava un piccolo incidente in una miniera in un vero e proprio caravanserraglio mediatico. In Prima pagina i giornalisti sono dei cani sciolti lanciati alla ricerca della notizia sensazionale, Wilder segue il canovaccio di Hecht e MacArthur e ce li mostra in tutta la loro rozzezza, la verità che descrivono ai lettori viene modellata e reinventata a loro piacimento. Non è da meno il mondo che li circonda, fatto di poliziotti corrotti e stupidi (lo sceriffo Hartman riletto dal bravissimo Vincent Gardenia), politicanti senza scrupoli pronti a cambiare opinione per un voto (il sindaco interpretato da Harold Gould) e studiosi idioti e pieni di sé (lo psichiatra austriaco – qualche riferimento alle origini del regista? – incarnato con molta ironia da Martin Gabel). Wilder li descrive con sana cattiveria e un distacco che, soprattutto nella prima metà del film, si traduce nella scelta di riprendere gli attori con piani medi e mai primi piani (il che gli consente anche perfette inquadrature corali).

Gli aspetti più umani, eccezion fatta per lo sfortunato condannato Earl Williams di Austin Pendleton, vengono dalle figure femminili, secondarie in un universo schiacciato dalla prepotenza maschile. E questo è evidente, più ancora che nella candida Peggy, nella squinternata prostituta Mollie, innamorata di Williams, che Carol Burnett interpreta con grande sensibilità. È lei a parlare a nome degli autori e del regista, cercando di scuotere gli animi di tutti, ed è sempre lei a dimostrarsi pronta al sacrificio. Wilder si concede questa parentesi, ma poi riprende subito il filo cinico del discorso e si fa beffa anche dell’aspetto romantico della vicenda, mandando a farsi benedire il possibile lieto fine.