“Per primo hanno ucciso mio padre”, il ritorno alla regia di Angelina Jolie

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Angelina Jolie con il figlio Maddox e Loung Ung

Dopo i mesi della separazione turbolenta da Brad Pitt e le copertine a tutto gossip, Angelina Jolie riprende in mano il gioco e torna in campo da regista, nel segno dell’impegno. Ciak ha visto in anteprima il suo nuovo film, Per primo hanno ucciso mio padre, presentato il 2 settembre al Festival di Telluride e poi a Toronto, tratto dal libro Il lungo nastro rosso (ed. Piemme) di Loung Ung, quarantasettenne attivista per i diritti umani sopravissuta da ragazzina al genocidio di due milioni di cambogiani perpetrato dai Khmer Rossi a partire dal 1975, anno in cui i ribelli comunisti fecero cadere il regime militare di Lon Nol.

A quell’epoca, Loung Ung aveva nove anni e fu strappata dalla sera alla mattina alla sua confortevole vita a Phnom Penh. Figlia di un funzionario governativo, venne obbligata con i genitori e i fratelli a marciare verso i campi di lavoro in piena giungla, perdendo tutto in nome di una egualitarismo spietato.

Loung Ung ha incontrato la Jolie per la prima volta diciasette anni fa, mentre l’attrice girava in Cambogia Lara Croft: Tomb Raider. Da allora sono diventate amiche e hanno sviluppato assieme la sceneggiatura del film, prodotto da Netflix e distribuito sulla piattaforma dal 15 settembre.

Angelina Jolie con il figlio Maddox e Loung Ung sul set

La Cambogia è la seconda patria della Jolie, lì è nato il suo primo figlio adottivo Maddox, che firma il film da coproduttore, e in quella terra è tornata più volte per interventi in campo umanitario. Per primo hanno ucciso mio padre, lunga e dolente narrazione della decimazione fisica e ideologica di un intero popolo, si avvale della collaborazione del regista Rithy Panh, autore sullo stesso tema del capolavoro L’immagine mancante (The Missing Picture, 2013) e, nel ruolo della piccola protagonista, di Sareum Srey Moch, scelta fra centinaia di ragazzini alla prima esperienza recitativa.

Tra grandi difficoltà burocratiche e molti pericoli (il territorio è ancora infestato in molti punti dalle mine inesplose dei Khmer Rossi) il film è stato realizzato sui luoghi reali, coinvolgendo i sopravvissuti, raccogliendo testimonianze e ripercorrendo memorie dolorose e ancora lancinanti. Il film delinea con passo lento, empatico e dettagliato, la lotta per la sopravvivenza di milioni di cittadini strappati alle proprie vite, privati di ogni proprietà e memoria personale, obbligati a lavorare sotto la minaccia delle armi, costretti persino a tingere i loro vestiti dello stesso colore nero, separati dalle famiglie, tutto in nome di un totalitarismo cieco.

Il punto fermo di Angelina Jolie è il volto della piccola Loung, murata nel silenzio e costretta nel terrore ad assistere senza reazioni alle atrocità e ai soprusi, finché la madre, dopo la scomparsa del padre ucciso dai ribelli Khmer, non decide di farla fuggire da sola verso un campo di accoglienza per orfani, unica speranza di sopravvivenza. Un distacco atroce, vissuto come sempre in un silenzio attonito dalla bambina: per lei, abbandonata a se stessa, la vita diventa addestramento al credo ideologico, alla guerriglia e al combattimento.

Un film classico, con punte drammatiche ben dirette, come la scena del campo di mine in cui la ragazzina si trova intrappolata come in un infernale labirinto, mentre attorno a lei saltano in aria, uno dopo l’altro, i fuggitivi. Un film che non evita la pennellata retorica e non cerca sottigliezze, ma va dritto al punto: i buoni sono i buoni, i cattivi i cattivi, il prima e il dopo degli eventi non contano, conta solo il risultato drammatico in termini umanitari. Uno spicchio di storia del Novecento che ancora sanguina, un buco nero di terrore e demenza politica che il film della Jolie ha il semplice pregio di farci ricordare. O di scoprire, per chi ancora non sapeva.

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