La Provocazione di Paolo Mereghetti: esercenti tutti “Tafazzi”

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Nelle sale cinematografiche, prima della proiezione dei film, vengono trasmessi spot pubblicitari che decantano il fascino delle serie tv. Come se in un concessionario Fiat si propagandassero le Citroën

DI PAOLO MEREGHETTI

Ho fatto una piccola ricerca ma mi sembra un caso unico al mondo, che un operatore commerciale accetti di buon grado di far pubblicità al proprio concorrente. Come se prima di entrare in un concessionario Fiat ci fosse un bel cartello che invita a comprare un’auto Citroën o Volkswagen. O un rivenditore Ferrari vantasse le qualità di una Mustang o una Lamborghini. Sarebbe una follia, e invece nel cinema italiano è prassi comune: come altro si potrebbe definire la logica con cui i cinema di casa nostra accolgono tra i loro inserzionisti pubblicitari il più importante produttore e distributore di serie televisive? Uno si siede in poltrona aspettando di vedere il film per cui è uscito di casa e ha pagato un biglietto e tra un trailer e l’altro (una volta si diceva «prossimamente», a sottolineare il piacere dell’attesa) si vede la faccia di Accorsi che decanta il fascino delle serie tivù. E non una volta sola ma con una specie di feuilleton a incastro, dove con cadenza più o meno mensile si spiega – con insinuante retorica – il piacere o il fascino di questa o quella caratteristica seriale: la popolarità degli attori, il piacere dell’appuntamento, la paura dello «spoileraggio» (l’Accademia della Crusca mi perdoni questo orrido inglesismo, ma pare che i giovani lo considerino vocabolo comune, come «mamma» e «papà»), la tensione dell’attesa…

Niente da dire sulla logica che muove l’inserzionista. Lui evidentemente fa il suo mestiere, che è quello di vendere il suo prodotto, ma che dire di chi accetta quella pubblicità? È vero che il cinema va male ma saranno quei pochi euro che salveranno i bilanci delle sale italiane? Pecunia non olet, si dice, soprattutto in tempi di crisi ma visto che siamo scivolati nel latinorum vorrei ricorrere a un’altra citazione: timeo Danaos et dona ferentes, perché certi «regali» si portano dietro anche la polpetta avvelenata. Che nel caso specifico è la sostanziale svalutazione del cinema e la sua riduzione alla semplice arte (o non-arte) di raccontare.

Che le serie televisive, alcune belle altre decisamente orrende, non siano il futuro del cinema, come una sospetta campagna d’opinione cerca di imporre, l’ho già detto e scritto. Capisco che qualche attore preferisca recitare in una serie, tra altri attori, invece che davanti a un blu-screen infagottato in qualche improbabile costume e sospeso a un po’ di fili invisibili. Ma da qui a dire che il cinema non ha più attrattive ce ne passa. Così come ridurre tutto il fascino e l’interesse di un film al suo svolgimento puro e semplice: un conto era trovare dietro i fatti il fascino dello storytelling, la capacità di trasformare in narrazione quello che apparentemente non lo è, ma ridurre tutto a questa pratica retorica vuol dire cancellare d’un sol colpo le mille altre sfumature e significati che possono avere le «storie». Che non si possono ridurre solo al loro «riassunto». Come invece tentava di insufflare una delle avventure di Stefano Accorsi nella terra delle serie, quando offriva a un gruppo di (ipotetici) spettatori la possibilità di scoprire come vanno a finire le loro amate storie. Una di loro rispediva al mittente (in partibus infidelium) l’aggeggio che poteva rivelare, anzi «spoilerare», i tanto attesi finali. Confesso che ho provato un po’ di piacere per il dolorino che quella scena deve aver forse fatto provare ad Accorsi, ma ancora di più spero che lo abbia fatto a chi crede che il cinema sia solo una storia che bisogna scoprire come va a finire. C’è dell’altro in un film, molto altro, credetemi.

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