“REVENANT – REDIVIVO”: LA RECENSIONE

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The Revenant Usa, 2015 Regia Alejandro G. Iñárritu Interpreti Leonardo DiCaprio, Tom Hardy, Domhnall Gleeson, Will Poulter Produzione New Regency Productions, RatPac Entertainment Distribuzione Fox Durata 2h e 36′

In sala dal

16 gennaio

1823, nell’inesplorato Nord Dakota. Trapper e guida di una spedizione di cacciatori di pelli attaccata dagli indiani Ree, Hugh Glass viene aggredito da un grizzly e abbandonato dai due uomini incaricati di assisterlo nell’agonia. Incredibilmente riesce a sopravvivere e, sia pur ferito e menomato, attraverserà nel cuore dell’inverno pianure, montagne, fiumi e foreste, tra tribù ostili e spietati cacciatori francesi, guidato dalla sopravvivenza e dal desiderio di vendicarsi di John Fitzgerald, l’uomo che lo ha derubato, ucciso il figlioletto meticcio e lasciato lì a morire, disobbedendo agli ordini.

Liberamente tratto da un romanzo di Michael Punke (edito da Einaudi), a sua volta ispirato a una storia vera, Revenant si propone come un survival-western, spettacolarmente crudo e iperrealistico sino all’enfatizzazione: “Morire è faticoso quanto sopravvivere”, oppure: ”Finché riesci a respirare, combatti”. Splendido nel ricostruire il caos e il panico di un combattimento con i Ree visto quasi in soggettiva (le colt e i winchester non erano ancora stati inventati), terrificante nel suo insinuarsi circospetto in una natura aliena, ostile e qualche volta sublime, il film di Alejandro González Iñárritu (Amores perros, Babel, Birdman tra gli altri e scusate se è poco) è potente e ambizioso, più intellettuale (la cura con cui evita letture modernizzanti! Il che però è a sua volta un’altra modernizzazione del passato) che elegante (alla fine in effetti può generare una certa sensazione di sazietà e il ritmo, più ossessivo che incalzante, non aiuta), con una suggestiva colonna sonora di Ryuichi Sakamoto e Carsten Nicolai. La sceneggiatura di Iñárritu e Mark L. Smith (specializzato in horror, tra cui The Hole, regia di Joe Dante) cerca di tenersi lontano da ogni compiacimento moraleggiante, anche se – ahilei – non può impedirsi di cedere alla fine a un certo compromesso. E tra gli irsuti attori – e un po’ spiace constatarlo – all’impegnatissimo e rantolante DiCaprio, tanto talentuoso e professionalmente avvinghiato al ruolo (ma i lineamenti delicati anche qui non gli rendono il servizio che il suo mestiere meriterebbe), preferiamo la facilità e la naturalezza di Tom Hardy, perfetto nel colorare il ruolo ingrato (ma eccitante) di un truce outsider, cinico e maldisposto a tutto.

Massimo Lastrucci