SERIE TV: THE KNICK

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Su Sky Atlantic, ogni martedì alle 21.10

Regista da Oscar (Traffic), che ha spaziato dalla commedia popolare (Ocean’s Eleven) all’impegno politico estremo (Che), a tratti discontinuo ma sempre guidato da una sana inquietudine creativa, Steven Soderbergh “rischia” di dare il suo meglio sul piccolo schermo. Dopo aver firmato una biografia che in apparenza è tutta colori sgargianti e lustini, ma ha un’anima nera e dissacrante (Dietro i candelabri), ora debutta nella serialità vera con questo The Knick (10 episodi con una seconda stagione già in cantiere), che, se possibile, è ancora più dirompente e spiazzante.
Questa serie ispirata alla figura di William Stewart Halsted, chirurgo morto nel 1922 che rivoluzionò la tecnica operatoria, non si limita infatti a sovvertire tutte le regole classiche del medical drama, da E.R. a Grey’s Anathomy, ma si serve del passato (la serie è ambientata a New York proprio nel 1900, anno primo di un nuovo secolo) come specchio del presente, per invitare ad una riflessione profonda sull’idea di progresso e di speranza nel futuro, sull’etica della scienza, sulla funzione della tecnologia. La scena chiave di Method and Madness, l’episodio pilota, vede pre protagonista l’anziano primario dell’ospedale che nel teatro operatorio e di fronte ai suoi studenti tentadi salvare una donna e il bambino che porta in grembo. Il chirurgo usa il suo bisturi con mano sicura, certamente non gli mancano tecnica ed esperienza, ma è la tecnologia che lo circonda (non si usano guanti, si aspira il sangue a manovella) a non essere all’altezza dei suoi sogni, ad essere lenta, a rubargli minuti preziosi. Alla fine la donna muore e il chirurgo, questo è il suo dodicesimo fallimento, si ritrova stanco di “combattere contro i mulini a vento”, ritorna nel suo studio e si uccide. Questa impotenza da uomo rinascimentale, che non vuole smettere di “avanzare verso il futuro radioso” ma è continuamente frustrato da una realtà che non è (ancora) all’altezza dei suoi sogni, il vecchio primario la lascia in eredità al protagonista John Thackery (un ottimo Clive Owen), medico geniale che in corsia sa essere lucido e intuitivo, ma fuori dall’ospedale si fa travolgere dal dolore e dall’impotenza, scivolando nell’oblio della cocaina.
Un elemento storico (Halsted, come molti altri clinici dell’epoca, sperimentava su se stesso diversi farmaci, compresa la cocaina come anestetico locale) che, come diversi altri, assume anche un valore simbolico. Esattamente come il rischio endemico di epidemia fra le strade di New York, frutto di povertà, assenza di norme sanitarie ed incuria, o la figura della bambina straniera, che fa da interprete alla madre gravemente malata, ma deve lasciare l’ospedale per andare a lavorare, o, infine, l’opportunismo e la corruzione che regnano nella gestione economica dell’ospedale stesso. Soderbergh non nasconde nulla, anzi evidenzia ogni sgradevolezza (comprese le scene crude delle operazioni, di fronte alle quali viene naturale distogliere lo sguardo), ma al contempo sottilinea l’etica, il coraggio della sfida, la caparbia speranza nel nome del futuro che rende terribile e magnifica l’esistenza di Thackery. L’episodio, non a caso, si chiude con una doppia vittoria: la salvezza di un paziente e la stretta di mano al nuovo medico di colore, in virtù delle sue capacità. E alla fine è un po’ come se Soderbergh si domandasse com’è stata usata, nel nostro nuovo secolo dalla tecnologia perfetta, tutto quel sangue, quel dolore, quella speranza.

Stefano Lusardi

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