Una lunga fila, creatasi con ore di anticipo, ha preceduto la proiezione stampa di Knight of Cups, l’ultima pellicola del regista texano Terrence Malick presentata in concorso al Festival di Berlino,dove vinse l’Orso d’Oro nel 1999 per La sottile linea rossa, a dimostrazione di come ogni sua opera susciti un forte interesse da parte di stampa e spettatori che vivono l’uscita di un suo nuovo progetto filmico come un evento da non mancare. Il Berlinale Palast poi è stato teatro di una surreale e a tratti imbarazzante conferenza stampa, nella quale più di un addetto ai lavori ha scambiato il produttore del film per il regista, la cui scelta di non comparire in pubblico o pubblicizzare i suoi film è ben nota, suscitando quindi l’ilarità generale dei partecipanti, compresi Christian Bale e Natalie Portman, chiamati a rappresentare la pellicola.
Definito proprio dai media schivo e riservato, Terrence Malick, ha fatto in realtà una scelta precisa, quella vivere lontano dalle luci dei flash dei fotografi e dall’ingerenza nel privato della stampa per rimanere nel luogo a lui più congeniale: dietro l’obiettivo della macchina da presa. Così facendo ha sicuramente alimentato l’alone di mito che si è creato intorno alla sua figura, rendendolo, con soli sette film all’attivo in oltre quarant’anni di carriera, uno dei registi più importanti della storia del cinema che, nel bene e nel male, come dimostrano anche le reazioni contrastanti della stampa internazionale alla prima di Knight of Cups, non lascia mai indifferenti. Senza rilasciare un’intervista dagli anni ’70, il regista, è l’equivalente cinematografico di quello che J.D. Saliger ha rappresentato per la letteratura americana del XX secolo.
Le similitudini tra i due non si riducono ad una semplice volontà di estraniarsi da tutto ciò che riguarda la sfera pubblica connessa ai loro lavori, lasciando che siano proprio questi a parlare per loro, dando risposte soggettive come le domande e le emozioni suscitate in chi guarda o legge. Proprio come lo scrittore de Il giovane Holden, l’intero lavoro di Malick è votato al perfezionismo, tanto da impiegare anni per portare a termine un progetto, come dimostra la gestazione trentennale del documentario Voyage of Time (esattamente come per l’epopea della famiglia Glass, creatura di Salinger che potrebbe vedere la luce proprio quest’anno), e alla continua estensione, pellicola dopo pellicola (o libro dopo libro, basti pensare all’ossessione di Salinger per la Seconda Guerra Mondiale o l’attenzione al mondo dell’infanzia/adolescenza), delle tematiche e dello stile filmico a lui cari, testimoniata dall’opera presentata alla Berlinale, proseguimento del cammino concettuale iniziato con The Tree of Life e proseguito con To The Wonder.
La forza vitale e pura della natura (The New World), la ricerca del senso dell’esistenza (The Tree of Life), la voce fuori campo (La Rabbia giovane), flusso di coscienza interiore dei personaggi, la liricità delle musiche (I giorni del cielo), una fotografia, dal 2005 curata dal premio Oscar Emmanuel Lubezki, che esalta colori e luci delle sue soavi inquadrature, il tema religioso (La sottile linea rossa), l’uso di flashback in un montaggio emozionale(To the Wonder), dove l’impiego della parola è sempre meno necessario e dove proprio l’immagine e l’evocazione viscerale che suscita nello spettatore si fa veicolo narrativo, sono i punti chiave del pensiero filmico di Malick, presenti in misura maggiore o minore in ogni suoi film, se non addirittura esasperati.
Un regista invisibile che ha fatto della sua assenza la cifra distintiva di un percorso filmico votato alla ricerca costante del senso dell’esistenza umana, fatta di errori e smarrimento, in contrapposizione alla purezza incorruttibile della natura, in flusso continuo che non ha una fine netta, ma si rinnova costantemente come le sequenze stesse dei suoi film, in un finale aperto che gira su se stesso come in un labirinto dal quale è impossibile uscire.
Manuela Santacatterina