Su Fox dal 9 febbraio
Il messicano Guillermo Del Toro è forse l’unico regista wellesiano in circolazione. Non parliamo ovviamente di qualità artistica (Orson Welles è un gigante e sta meritatamente nella storia del cinema) ma di una creatività onnivora e frenetica destinata a scontrarsi sistematicamente con le dure leggi del mercato, che caratterizza entrambi. Come la filmografia di Welles è segnata da opera incomplete e sogni infranti o almeno ridimensionati, in quella di Del Toro non si contano i progetti naufragati (dalla trasposizione di Le montagne della follia di Lovercraft ad un ennesimo Frankenstein, dal terzo Hellboy a quello che dovrebbe chiudere la trilogia spagnola, culminata nel notevole Il labirinto del fauno), che sulla carta lui immagina grandiosi, mentre nella realtà del cinema il suo genere prediletto, quello dei mostri e dell’orrore, è tradizionalmente low budget. Forse anche per questo, e per evitare l’ennesima frustrazione, The Strain, che segna il suo ingresso nella serialità, parte facile, con gran parte del lavoro già fatto. Tutto il materiale narrativo, infatti, deriva da tre libri che Del Toro ha scritto in coppia con Chuck Hogan, già per altro tradotto in immagini grazie ad una serie a fumetti dal sapore estremamente splatter. Nella serie mancano gli elementi più interessanti del suo cinema migliore, ovvero la mostruosità che si fa simbolica e la paura che diventa filosofica e politica, ma il pilot risulta divertente per almeno due elementi: come l’autore (nel pilot anche regista) affronta il passaggio dalla normalità all’orrore e soprattutto in che modo e fino a che punto modifica l’archetipo del vampiro.
Un aereo proveniente da Berlino con 210 persone a bordo resta immobile, freddo e silenzioso su una pista d’atterraggio del JFK di New York. Intorno all’oggetto misterioso si accalcano tutti: Cia, Fbi, sicurezza nazionale, ma alla fine l’avrà vinta il Centro di controllo malattie, con a capo il dottor Goodweather (Corey Stoll) esperto in epidemie. Il contrasto (per ora) a distanza è appunto fra lo scienziato, che verifica il livello di radiazioni ed esamina l’interno dell’aereo ai raggi ultravioletti, e uno strano anziano signore dal nome evocativo, Abraham Setrakias, che invece, inascoltato, consiglia di bruciare i cadaveri delle vittime e di non perdere d’occhio una strana gigantesca cassa piena di terra che stava nel deposito bagagli. Nel suo stile, Del Toro reinventa soprattutto l’aspetto, gigantesco e molteplice, del suo mostro, che decisamente non veste elegantemente né si limita a succhiare il sangue coi classici canini. Del Toro è molto abile nell’aggiungere elementi misteriosi (compreso un industriali in dialisi e il suo assistente assai poco umano) che sottintendono un complotto, dosa con cura i momenti gore e crea un’atmosfera perfetta e insinuante da pre-apocalisse. Ma il vero colpo di genio sta nella voce fuori campo, a inizio e fine, del vecchio Abraham, che definisce la fame âla cosa più importante che conosciamo, la prima lezione che apprendiamoâ. Visto il clima, diamo per scontato si riferisca a fame di sangue, come si conviene ai vampiri. Invece, sta parlando d’amore.