UN BALLO DA RIVOLUZIONE

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La luce, il colore, il movimento si vestivano di seta per celebrare la grazia sul palcoscenico dell’Opéra di Parigi. Loïe Fuller rivoluzionò il balletto moderno ma poi il suo nome cadde nell’oblio. A rispolverare la storia è Stéphanie Di Giusto che firma la sua opera prima, The Dancer, presentato quest’anno a Cannes nella sezione Un certain regard. Accanto a Gaspard Ulliel, protagonista anche del nuovo film di Xavier Dolan, Juste la fin du monde, Mélanie Thierry, Lily Rose Depp che debutta sul grande schermo, sarà però la misteriosa Soko, l’ex compagna di Kristen Stewart, a portare in scena la ballerina e attrice statunitense che ispirò artisti come Henri Toulouse-Lautrec, Rodin e i fratelli Lumière diventando la protagonista della Parigi dei primi del Novecento.

Coperta da metri di seta, circondata da luci elettriche e colori, Loïe reinventava il suo corpo a ogni esibizione. Anche se gli sforzi fisici le rompevano la schiena, anche se la potenza delle luci le bruciava gli occhi, lei non smetteva di danzare sorprendendo il pubblico con la sua ipnotica e celebre “serpentine dance”. Divenuta simbolo di una generazione, avrebbe fatto di tutto per perfezionare la sua arte, incurante anche della sua salute. Ma l’incontro con Isadora Duncan avrebbe cambiato presto tutte le carte in tavola. Il giovane prodigio avido di gloria farà precipitare l’icona di inizio secolo. 

«Tutto è partito da una foto in bianco e nero che rappresentava una ballerina in un vortice di seta, che lievitava verso l’alto, con una didascalia in basso: “Loïe Fuller: icona della Belle Epoque”. Ho voluto sapere quale donna si nascondesse dietro tanti metri di stoffa e la sua storia mi ha sconvolta», così Stéphanie Di Giusto spiega la nascita della sua prima pellicola. Prima di iniziare credeva di non essere all’altezza dei registi che ammira, poi la storia della lotta di questa ragazza, figlia di agricoltori dell’ovest americano che riesce a imporsi come artista, le ha dato il coraggio. «Loïe Fuller non rispecchiava nessuno dei canoni di bellezza in voga all’epoca. Il suo fisico era ingrato, aveva la robustezza della figlia di agricoltori e si sentiva prigioniera di un corpo che voleva dimenticare. D’istinto lei inventa un gesto che le fa attraversare il mondo. La bellezza naturale che non ha la crea nel suo spettacolo. Lei ha fatto del suo malessere un’energia, un’esplosione di vita, una sfida rabbiosa. Era l’emozione di questo combattimento che volevo catturare. È uno strano misto di forza, volontà e fragilità», racconta la regista.

Attrice prima che ballerina, Loïe Fuller considera la sua arte come evasione, corsa furiosa che dall’America porta all’Opéra di Parigi. Allora disegna il suo costume di scena per cui ha bisogno di 350 metri di seta, studia l’illuminazione facendo delle sue performances dei veri spettacoli d’avanguardia. Quando il mondo intero riconosce il suo talento, Loïe Fuller viene offuscata da Isadora Duncan. La giovane ballerina «incarna tutto ciò che lei non ha: la gioventù, il genio e la grazia. È lei la ballerina. Le basta apparire mentre Loïe deve allenarsi per ore e usare mille artifici. Isadora preferisce andare a bere cocktails con i giornalisti invece che lavorare ore alla sbarra. Questa forma di ingiustizia mi interessava: dobbiamo tutti confrontarci con i nostri limiti prima o poi». Stéphanie Di Giusto, dunque, rivive l’ascesa e la caduta di una stella sulle note di Vivaldi reinterpretato da Max Richter. In fondo, la lotta della ballerina rispecchia la sfida della regista che, come Loïe Fuller con la danza, fa del suo film un’opera elitaria ma allo stesso tempo popolare: «Tutte le arti sono un modo di restare liberi. Il mio film parla di questa libertà essenziale».