È uno strano viaggio nel tempo la premessa del film con cui Mauro Graiani ha scelto di esordire alla regia dopo una lunga esperienza da sceneggiatore (da Copperman di Eros Puglielli a Hotspot – Amore senza rete di Giulio Manfredonia), una commedia nella quale anche Massimo Ghini, Nino Frassica, Antonio Catania e Claudio ‘Greg’ Gregori vengono travolti dagli eventi scatenati da un incauto acquisto online. Ma in 30 anni (di meno) – al cinema dal 21 agosto, distribuito da Plaion Pictures – c’è molto di più, a partire dalle situazioni surreali e le gag esilaranti promesse alla possibilità di riflettere sulla vecchiaia e le seconde occasioni, fino agli interpreti, visto che nel cast troviamo anche una serie di giovani interessanti come Claudio Colica, Claudio Casisa e Giulia Elettra Gorietti.
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Tutto nasce dalla convivenza forzata, nell’unica stanza disponibile di una clinica privata, di tre sessantenni molto diversi tra loro, il rozzo Diego (Ghini), il colto Maurizio (Greg Gregori), costretto a separarsi dall’apprensivo partner Pietro (Frassica), e il vedovo Marco (Catania), tentato dalla possibilità di innamorarsi di nuovo di una inattesa vecchia fiamma. Proprio per aiutare quest’ultimo, in vista dell’appuntamento galante che potrebbe cambiare tutto, i tre finiscono per acquistare su un sito cinese una pillola ‘miracolosa’, che invece di favorire le prestazioni sessuali fa sì che si ritrovino di colpo più giovani di trent’anni. Una occasione irripetibile per aggiustare gli errori di una vita.
Un film che avrebbe potuto essere girato a Marbella, Ibiza, in Serbia, a Porto Cervo, Porto Rotondo e che poi è arrivato a Tivoli senza perdere nulla del significato insito nella vicenda ai confini della realtà e senza farsi troppo condizionare dai paletti del politicamente corretto. “Ci sono cose scorrette, che non sono mie – dice Graiani. – Un po’ di autocensura c’è stata, ma il problema non è quando scrivi, se essere scorretti significa raccontare la realtà, non è difficile da un certo punto di vista“.
Che tipo di autocensura?
Al montaggio, semmai l’unica censura è stata perché eravamo lunghi e avevo un film di 2 ore, per cui tante cose non ci sono. Aveva ragione il mio produttore, che diceva di girare meno e concentrarsi su di più su quello che avevamo. In questo senso ci siamo censurati da soli, ma non per “politically correct“, ma perché non c’era proprio spazio. Come nel caso del secondo finale, non siamo riusciti a mettere dentro, nel quale avevamo pensato a Totti tra i clienti di queste pillole della giovinezza. Totti con 30 anni di meno… chiunque avrebbe pagato per quelle pillole!
Per il resto, avete seguito lo ‘spartito’ o con gente come Frassica e Greg sul set c’è stato spazio per l’improvvisazione?
In realtà abbiamo fatto una lettura prima di andare sul set, e già in quella lettura avevamo collaudato molte cose. Quel ripetere “A, B, C” di Greg è nato in quella fase, che serve perché poi quando si gira loro abbiano un testo su cui mettere del loro. Mi sarebbe piaciuto dedicarle più tempo, semmai, ma anche così tutti hanno aggiunto qualcosa. Nel caso di Nino, abbiamo provato tutto prima, anche se io ho un po’ incoraggiato a spingere sulla parte di nonsense e quando ha proposto la battuta della crociera gli ho detto solo “falla”. Quanto a Greg, invece, lo definirei un “musicista dell’attorialità”, nel senso che lui ha uno spartito e a partire da quello poi improvvisa, se sa di poterlo fare e se pensa che sia giusto per il personaggio, ma di nuovo, è successo più durante la lettura.
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Nella sceneggiatura c’erano invece, sicuramente, le tante citazioni che fanno capolino qui e là, da Amici miei a Pirandello, dal Commissario Lo Gatto al “A me gli occhi, please” di Proietti…
Sono cose che vengono quando scrivi e il tono di una scena ti ricorda qualcosa, perché è chiaro che tutto il cinema di cui ci siamo nutriti esce fuori, magari inconsapevolmente. Perché ti rendi conto solo poi che stai costruendo un personaggio che ha quel meccanismo, come quello tra il bravo commissario e l’assistente. Più che una citazione è un ringraziamento. Come per Proietti, che guai a chi lo tocca e che proprio grazie a questi maledetti social ho rivisto recentemente nello sketch in cui è l’anchorman di un telegiornale che mentre parla delle api inizia a incollarsi a tutto quello che ha sulla scrivania con il miele. Rivedendolo mi è sembrato di rivedere il “Saturday Night Live“, però fatto in Italia, e bene.
Anche nello sfogo di Ghini, sessista e omofobo, c’è una sorta di avversione ai social, volevate sottolineare una facilità di giudizio che forse è un segno dei tempi?
Sì, ma non solo, credo sia una avversione – condivisa – all’estrema semplificazione. Diego utilizza un vocabolario per cui anche se dice “frocio”, ci tiene a ribadire che non è “omofobo”, che sarà pure sbagliato, ma lui che ci può fare se è cresciuto in un certo tipo di contesto? C’è un po’ uno smarrimento, che è generale. Come dice Greg, una volta c’era il MinCulPop, adesso c’è il “PolCor”, ma se ci sono delle cose che sono scorrette politicamente, vuol dire che le stai vietando.
Inizialmente la storia – ideata da Gabriel Carbotti (che nel film è la versione giovane del Christian di Fabrizio Nardi) – era diversa, nasceva dall’ansia lavorativa, poi?
In origine i protagonisti avrebbero dovuto essere quattro, in effetti, ma sarebbe stato impossibile da fare. Piuttosto, quando abbiamo scritto il soggetto avevo fatto delle ricerche, ponendo la domanda “che cosa faresti se oggi avessi la possibilità di tornare indietro?”, e la cosa impressionante è che nove uomini su dieci mi hanno risposto “farei sesso”, mentre invece la maggior parte delle donne, al di là dell’aspetto fisico, che è che chiunque vorrebbe essere come trent’anni fa, fisicamente, rispondevano “rimetterei a posto le cose”. Un elemento che avevamo sviluppato per un personaggio femminile che poi è diventato quello di Pietro. Anche Diego avrebbe dovuto avere un momento nel quale si vedevano tutte le locandine dei suoi spettacoli, per ribadire questo suo essere un attore, colto, che sentiamo recitare una poesia di García Lorca, una sorta di Gassman in pectore, diciamo, come reso evidente anche dalla citazione presa dall’epitaffio del grande Vittorio.