Non un semplice musical né un biopic come altri, Better Man è la storia vera dell’ascesa fulminante, della drammatica caduta e della straordinaria rinascita della superstar del pop britannico Robbie Williams, ex Take That, che qui vediamo mettersi a nudo in maniera più unica che rara. Oltre che incredibilmente emozionante e spettacolare, grazie alla regia del Michael Gracey di The Greatest Showman e alla decisione affidare il ruolo di protagonista a Jonno Davies (Hunters, Kingsman: The Secret Service), trasformato dal CGI in una scimmia, che lo candidano seriamente a entrare tra i 5 migliori musical moderni.
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IL FATTO
L’infanzia del piccolo Robbie Williams – bullizzato a scuola, trascurato dall’estroso padre e cresciuto dall’affetto di una nonna amorevole – e la sua trasformazione nel più giovane componente dei Take That, la boyband che negli anni ’90 conquistò le classifiche e il cuore di milioni di fan. Una storia di crescita che vediamo svilupparsi tra alti e bassi, tra egoismi e debolezze, fino al successo da record ottenuto da solista, senza risparmiarci le sfide e le ombre che la fama porta con sé.
L’OPINIONE
Sesso, droga e Pop, più che Rock ‘n Roll, costellano un romanzo di formazione sui generis, che lo stesso Williams ha dichiarato non aver voluto “ripulire”, anche per non confondersi con i tanti film biografici in circolazione negli ultimi tempi, edulcorati e noiosi. Un intento encomiabile, che pure non elimina del tutto i sospetti di ‘adattamento’ di una storia piuttosto classica di ‘ascesa e caduta’ resa originale e unica al di là della scimmia protagonista, tanto da far passare in secondo piano quanto sia – o non sia – stata romanzata rispetto ai fatti realmente accaduti.
“La tua età si ferma quando diventi famoso, quindi ho sempre avuto 15 anni” dichiara il protagonista, a dare una chiave di lettura della follia, il genio e la sregolatezza mostrati in scena – dai palcoscenici calcati da giovane, alle ‘recite’ poco apprezzate dalle persone che lo circondavano fino alla finzione del grande schermo – e a porre le premesse di quello che si va via via definendo come un faticoso percorso di “evoluzione” (che rende doppiamente coerente e azzeccata la scelta di affidarsi al primate come alter ego).
Il tentativo di un ragazzino di 12 anni che non ha mai potuto sentirsi sicuro, a scuola e a casa come sul palco, e i tanti – mediamente falliti – di un giovane adulto, mai diventato maturo e rassegnato all’ennesima rehab, di trovare un posto nel mondo, e nella propria vita, dopo aver fatto tabula rasa di amori (su tutti la Nicole Appleton di Raechelle Banno, scelta per interpretare l’ex All Saints, poi moglie di Liam Gallagher, nel film Leo Harvey-Elledge) o amici e non avendo mai davvero superato l’abbandono di un padre assente e aspirante cantante e stand up comedian (il Pete Conway/Peter Williams di Steve Pemberton).
Un film che commuove, emoziona, travolge, che rende naturale l’identificazione con un personaggio tanto fuori dal comune per le sue paure, invidie e debolezze, tanto comuni. E che offre la possibilità di approfittare della propria lunga analisi, una sorta di terapia che punta a mostrare come liberarsi delle vesti che il mondo spesso troppo facilmente addossa agli altri, ma senza stancare. Grazie a una regia completamente al servizio dello spettacolo, mai fine a se stesso, sempre arricchito di significato, e del dramma. Perché in ogni esplosione di lustrini, su ogni gradino della scala verso il Paradiso, ci sono le lacrime dietro le quinte, c’è il vomito sul cuscino, c’è la certezza della delusione, c’è la furia rabbiosa (che ricorda quella di Pink in “One of My Turns”).
Il piano reale, quello del racconto, quello della finzione scenica raccontata e di quella rappresentata visivamente, a un livello cinematografico che li unisce tutti, si mescolano continuamente, anche con trovate molto interessanti e scelte di regia che non si limitano al giochino sfizioso, ma spesso devono mettere in scena gli aspetti più intensi della storia. Nella quale davvero viene da credere non ci sia stata censura, vista la durezza di alcuni momenti, mai sfruttata in maniera furba o retorica come in altri casi, inclini a una sorta di pornografia della sofferenza.
Qui tutto è esemplare, senza pretese pedagogiche, tutto è catarsi, o almeno la possibilità della stessa, a partire da una sorta di restituzione – vera o meno, poco importa – da parte di Williams nei confronti delle figure femminili della sua vita, dalla ex Nicole alla nonna o la mamma. O della figura paterna, coinvolta in un gran finale, molto bello per quanto prevedibile, nel quale il sogno del piccolo Robert Peter Williams e la realtà del Robbie sul palco si sovrappongono.
Per altro, dopo aver lottato per tutta la sua vita con sé stesso, con il proprio Super-io, anch’esso in forma scimmiesca e che vediamo per tutto il film osservarlo, silenzioso e onnipresente, ‘gonfiarsi’ e crescere, moltiplicarsi, sempre più dopo ogni tappa lasciata dietro di sé senza superarla davvero, represso e giudicante, fino al climax di una scena incredibile e completamente avulsa dal resto: una battaglia fantasy che coincide con l’apice della gloria cercata e ottenuta dallo showman nei tre concerti dell’agosto 2003 al Knebworth Park di Stevenage, davanti a 375 000 spettatori totali, il più grande evento live nella storia nel Regno Unito.
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Non c’è forse nulla di analogo, quanto a trasformazione del protagonista, ma per restare tra i grandi biopic musicali non dovreste sbagliare scegliendo il The Wall citato – i Pink Floyd sono sempre la risposta giusta – o l’Opera Rock Tommy degli Who, con cui questo film ha molto in comune, fino al sorprendente Rocketman di qualche anno fa, sulla vita romanzata di Elton John (e no, non ci siamo scordati di citare il sopravvalutato ed evitabile Bohemian Rhapdsody).