Brado, il western urbano di Kim Rossi Stuart

Kim Rossi Stuart torna alla regia con Brado, un western urbano sul rapporto tra padre e figlio. E su due diversi modi di guardare alla vita. Dal 20 ottobre in sala con Vision

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Un padre e un figlio, molti conflitti e una convivenza forzata, la ricerca di un nuovo equilibrio, un ranch scalcinato, un evento improvviso, un cavallo indomabile che diventa l’occasione per superare grandi ostacoli. Kim Rossi Stuart dirige il suo terzo film, Brado, un “western urbano”, prodotto da Carlo Degli Esposti e Nicola Serra per Palomar in collaborazione con Vision, Sky e Prime Video, in sala dal 20 ottobre. La storia ruota intorno a complessi legami famigliari da riscoprire e ricostruire. La racconta a Ciak.

Quando è nata l’idea del film?

Nel 2019 sono andato dal mio abituale produttore, Carlo Degli Esposti, con quattro soggetti e lui si è particolarmente appassionato a questo. La gestazione è stata lunga, per me la fase di sceneggiatura lo è sempre, e poi ci sono state le interruzioni dovute al Covid.

Il tema delle relazioni famigliari ti appassiona molto.

Una persona molto vicina a me diceva che in fondo i film parlano sempre di rapporti tra genitori e figli. All’epoca non ero d’accordo, ma ora penso che in questa affermazione ci sia del vero e i miei tre film da regista parlano molto di queste relazioni, in effetti. Mi guida anche il desiderio di lavorare su generi diversi: Anche libero va bene era una storia di formazione, Tommaso un film profondamente psicanalitico, con delle punte di commedia, mentre Brado appartiene al genere “impresa sportiva”, immerso nell’humus del rapporto tra padre e figlio, inteso nel modo più ampio possibile. Nei titoli di testa c’è l’immagine di un impasto che ricorda la creta, un riferimento biblico alla Genesi, e quindi alla Creazione, messo a fuoco nel lavoro di sceneggiatura con Massimo Gaudioso. Tutto ha avuto origine da un padre e un figlio e tutti i rapporti filiali hanno a che fare con vita, morte, gioia, sofferenza, la capacità di accettare o di rifiutare la realtà. Un tema archetipico che parla a credenti e non credenti.

Che ruolo ha il cavallo in questa storia?

È uno dei tre protagonisti, il motore della storia, intorno al suo addestramento ruota tutto. Per continuare a essere un po’ presuntuosi, il cavallo simboleggia la vita, che ha i suoi corsi e che si può approcciare in due modi diametralmente opposti, come fanno padre e figlio: c’è chi la vuole comandare e chi è disposto a farsi guidare dalla sua sapienza.

Torni a dirigere Barbora Bobulova.

La stimo molto. E c’è un sottile fil rouge che unisce i miei tre film, con personaggi che ritornano così come ricorrono dei nomi. Mi piace suggerire una sorta di continuità, ma Brado è un film completamente autonomo, sia narrativamente che stilisticamente.

Dici di essere un uomo complicato che sta cercando di andare verso la semplicità.

Sono stato un ragazzo piuttosto complicato e forse anche contorto, mentre nella semplicità c’è tutto quello di cui abbiamo bisogno e il massimo grado di maturità.

Cosa ti spinge a passare alla regia ogni tanto?

La inseguo da sempre, da quando a 16 anni cominciavo a scrivere sceneggiature. L’esordio è arrivato molto più tardi di quanto avrei voluto e quello che mi porta dietro la macchina da presa è il piacere di mettere insieme elementi che rendono il gioco più complicato. Anche da attore ho sempre cercato di complicarmi un po’ la vita quando un personaggio mi sembrava troppo lineare e poco profondo. Mi piace scavare, sperimentare, studiare, provare strade diverse.

Da attore ti diverti a dirigere gli attori?

I film che ho diretto sono sempre state delle imprese di una fatica mostruosa, soprattutto perché ero coinvolto anche come interprete. La direzione degli attori mi appassiona molto, ma mi diverte di più quando non sono in scena.

Dove ti rivedremo?

Nella serie Everybody Loves Diamond di Amazon, nel 2023. Sono stati tre anni di lavoro molto intensi, ora è tempo di casa e famiglia.