Addio a Ermanno Olmi: i suoi capolavori che hanno segnato il cinema

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Ermanno Olmi
Ermanno Olmi

Dei Maestri che han fatto grande il cinema italiano Ermanno Olmi, scomparso oggi all’età di 87 anni, è stato senza dubbio il più appartato. Per la sua lontananza geografico-ideologica da Cinecittà, ma anche per le qualità particolari del suo essere cineasta, poco legato alle ragioni dell’industria, alla frontline della battaglia contemporanea delle idee, alle polemiche brucianti dell’attualità.

Eppure Ermanno Olmi ci ha lasciato nel corso di una carriera meravigliosa per coerenza – brutalmente interrotta da una malattia (una sorta di grave polinevrite chiamata sindrome di Guillain-Barré ) che lo ha tenuto per qualche anno (dal 1983 al 1985) lontano dalla cinepresa – documentari pregevoli dal mondo del cinema industriale, il più bel film sulla alienazione del lavoro mai realizzato (Il posto), un articolato, epico e straordinario ritratto della vita e della “non storia” contadina come L’albero degli zoccoli (Palma d’oro a Cannes), più tante memorabili opere sommesse e vivide, quasi metafisiche nel loro realismo di dettagli e psicologia.

“L’artista deve aiutare a capire” è stato sempre il suo proposito, una semplicità piuttosto difficile a ottenersi. E Olmi, bergamasco, cresciuto prima a Treviglio, poi a Milano e infine invecchiato ad Asiago (trasferitosi lì definitivamente dal 1976, mantenendo così una promessa fatta con se stesso nel 1959), lo ha fatto cominciando a proporsi nel dopolavoro della Edisonvolta in cui era impiegato, filmando, all’inizio carriera, il progresso che trasforma natura e uomini, in affascinanti documentari su commissione (tra cui La diga sul ghiacciaio, 1953, Tre fili fino a Milano, 1958, Un metro è lungo cinque, 1961, oltre al malinconico Grigio, 1957 con testo di un giovane Pier Paolo Pasolini) che sono poi quasi naturalmente sfociati nel suo primo lungometraggio di (semi)fiction, Il tempo si è fermato, 1958, affresco di montagna, lavoro, lentezza e due persone diverse obbligate a conoscersi nella solitudine. Un’opera decisamente poco commerciale ma capace di emozionare e che lo fece perlomeno apprezzare da qualche addetto.

Praticamente un’anticamera di Il posto, 1961, uno dei film più belli degli anni ’60 (e non solo), una delicatissima (per toni) storia dell’ingresso nel mondo del lavoro di un giovane della provincia lombarda nei meccanismi stritolanti della quotidianità della vita impiegatizia. Niente urla, niente invettive, niente politicizzazione, ma l’evidente messa in scena dell’alienazione collettiva più spersonalizzante, in una solitudine di massa. Ritratto di vibrante ed emotiva malinconia che lo rivelò a Venezia 1961 (premio della Critica), e che gli fece tra l’altro conoscere la futura moglie, la coprotagonista Loredana Detto (da cui ha avuto 3 figli), qualitativamente quasi bissato dal successivo I fidanzati (1963), sulla lontananza forzata dalla promessa sposa di un operaio milanese in trasferta in Sicilia, con i rapporti che si incrineranno progressivamente.

Ermanno Olmi tra i protagonisti di Il Posto
Ermanno Olmi tra i protagonisti di Il Posto

Già con questi due film, appena trentenne, l’outsider Ermanno Olmi mostra caratteri artistici del tutto peculiari e con pochi collegamenti (certo ha amato Zavattini/De Sica, Bergman, Dreyer, e anche l’Alain Resnais di L’anno scorso a Marienbad): innanzitutto una conoscenza approfondita delle tecniche di ripresa, il circondarsi di aiutanti e collaboratori fedeli nel tempo, un uso quasi d’avanguardia artistica del linguaggio (flashback, flashforward necessari più alla verità e al colore del senso che non alla logica narrativa), la predilezione per certi temi/luoghi e per la ricerca dell’autenticità dei volti mai venuta meno. Per questo Ermanno Olmi spesso ha usato interpreti non professionisti, gente comune che “porta non solo una fisionomia esteriore che corrisponde a quella categoria umana, ma che è sempre il risultato di una fisionomia interiore. Ognuno è responsabile della faccia che ha. (…) Il volto di un uomo è anche la sintesi della storia universale”.

E se si ripercorre anche di corsa la lista dei suoi 19 lungometraggi, constateremo che per lui è stato (quasi) sempre così, dal primo all’ultimo (splendido, indignato e sottovalutato) Torneranno i prati, passando per i suoi titoli più significativi: Un certo giorno (1969, in cui riflette criticamente anche sulle sue esperienze di pubblicitario), I recuperanti (1969), La circostanza (1974), L’albero degli zoccoli (1978, Palma d’oro a Cannes), Canmminacammina (1982), Lunga vita alla signora (1987, Leone d’Argento a Venezia), Il mestiere delle armi (2001, 9 David di Donatello), Centochiodi (2007, con un reinventato Raz Degan). Anzi, dove forse il fascino/potere quasi magico/metafisico del suo sguardo introspettivo ha perso vividezza è piuttosto nei film dove ha provato a utilizzare grandi attori, magari estrapolandoli da ambiti e certezze date dal mestiere. Rod Steiger in E venne un uomo (1965, che peraltro probabilmente bisognerebbe ora rivalutare date le sue caratteristiche quasi di paradocumentario saggistico ante-litteram), Rutger Hauer in La leggenda del santo bevitore (1988, pur Leone d’oro a Venezia e un altro alla carriera lo avrebbe ricevuto nel 2008), Paolo Villaggio in La leggenda del bosco vecchio (1993), Bud Spencer in Cantando dietro i paraventi (2003), Michel Londsdale (con Hauer e Alessandro Haber) nel pur radicalmente polemico Il villaggio di cartone (2011).

L'albero degli zoccoli
L’albero degli zoccoli

Tra l’altro un tipo di cinema, quello di Ermanno Olmi, che è nato non privo di umorismo e osservazioni argute (vedi magari i particolari sulle scene delle feste e dei balli popolari che popolano i suoi film), ma che poi con l’avanzare della maturità, soprattutto con la cesura lavorativa causata dalla malattia, abbandonerà a favore di un’ottica quasi da favola, se non dell’apologo, a partire da Lunga vita alla Signora.

Potremmo ancora dilungarci sui suoi fertili rapporti con la televisione (quasi sempre con la Rai), il teatro, la letteratura (ha scritto il romanzo semi-autobiografico Ragazzo della Bovisa), le sue recenti battaglie per il ritorno alla terra, al cibo naturalmente coltivato, ma preferiamo prendere congedo da questo Gran Lombardo, credente ma mai con la Chiesa trionfante (“Sono soltanto un aspirante cristiano e penso che la migliore ideologia consista nel non essere schiavi dell’ideologia”), ricordando il pudore avvolto di cortesia del suo porsi, proprio come il suo cinema che ha coltivato quasi in tutte le specializzazioni (produttore, direttore della fotografia, montatore, scenografo, ovviamente sceneggiatore). Anzi, meglio, con le sue stesse parole: Io all’orgia e alla gestualità preferisco l’intensità dei gesti. La nostra vera intensità non la dimostriamo nella quantità ma nella qualità dei gesti, nella qualità di una parola, nella qualità di un’intenzione”.