Come in un viaggio attraverso il globo tre dei film in concorso presentati nella prima settimana del 78° Festival di Cannes trovano ciascuno a suo modo un linguaggio specifico, chi allusivo, chi allegorico e chi surreale, per offrire una visione del mondo e della società attuale che non lascia indifferenti. Sono Two Prosecutors di Sergei Loznitsa, Sirât di Oliver Laxe ed Eddington di Ari Aster e vengono rispettivamente dall’Ucraina, dalla Spagna e dagli USA.
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Guerre, crisi climatica, internet, immigrazione, conflitti razziali e ricerca di una verità – o anche solo di un senso – che appare sempre più difficile da trovare: si può dire che siano questi i temi su cui i registi più si interrogano al livello internazionale. Temi che affliggono e probabilmente in diversa misura accomunano le società, spesso disfunzionali, della maggior parte dei Paesi del globo e che a Cannes 2025 trovano respiro ed espressione attraverso le opere, in sé diversissime, di alcuni autori in concorso.
Two Prosecutors
Dall’Ucraina il regista Sergei Loznitsa con Two Prosecutors presenta una storia ambientata nell’Unione Sovietica del 1937 e ci riporta alle purghe staliniste in Russia adattando l’omonimo romanzo del 1968 del fisico, sopravvissuto per 14 anni al Gulag, Georgij Demidov.
È la storia di un giovane procuratore che riceve il messaggio, inaspettatamente sfuggito al controllo delle guardie della polizia segreta, l’NKVD, scritto con il sangue da parte di un detenuto falsamente accusato dal regime. Il giovane, un bolscevico convinto e integro, riesce ad incontrare il prigioniero, vittima degli agenti corrotti, e cercherà giustizia recandosi fino all’ufficio del Procuratore Generale a Mosca.
Il regista e sceneggiatore Sergei Loznitsa ha attraversato diversi generi, dal documentario alla fiction. Con attenzione meticolosa ai dettagli i suoi film testimoniano conflitti antichi e attuali, esplorano le cicatrici sovietiche e le cause della guerra in corso in Ucraina. Lo scorso anno con The Invasion, presentato nella sezione Un Certain Regard, Loznitsa aveva infatti documentato il conflitto mostrando frammenti di vita quotidiana nell’Ucraina dilaniata dalla guerra.
Con Two Prosecutors, una coproduzione internazionale che vede insieme Francia, Germania, Romania, Lettonia, Lituania e Paesi Bassi, Loznitsa restituisce l’immagine di una Russia stalinista vessata da un regime oppressivo, corrotto, che il prigioniero non esita a definire fascista, e offre una riflessione universale su ciò che sta dietro, ieri come oggi, ad ogni tipo di governo totalitario. Al centro del film echeggia il desiderio di una libertà che, per quanto possa apparire frutto di una ingenua visione del mondo, ha sempre senso nutrire in qualsiasi circostanza.
Sirât
Anche in Italia il tema dei rave party, grandi raduni clandestini che accolgono migliaia di persone che ballano e ascoltano musica elettronica, house o techno ad altissimo volume, è stato già al centro di accese discussioni. Ma con Sirât il regista franco-spagnolo Olivier Laxe propone più un road movie allegorico, una specie di odissea nel deserto del Marocco, che spinge la ricerca interiore di se stessi e della relazione con l’altro ai confini di ciò che è umanamente e moralmente sostenibile, richiamando alla memoria vicende ben più grandi dei personaggi coinvolti che vanno dal 7 ottobre alla crisi dei migranti.
Sirât è la storia di un padre (Sergi López) e di suo figlio in cerca della loro figlia e sorella tra i rave che si svolgono tra le montagne del Marocco meridionale. Dopo una di queste feste infinite e insonni i due si uniscono al gruppo di organizzatori del rave per raggiungere con un estenuante viaggio l’evento successivo. Costantemente accompagnati dalla musica elettronica e da suoni che la richiamano, i due seguono i camion dei cinque raver disadattati e si addentrano sempre più in un deserto che costringe la piccola, improbabile comunità a confrontarsi con i propri limiti.
Dopo una partenza che farebbe pensare ad una fiction disegnata come un documentario sui rave, Sirât si trasforma via via in un racconto metaforico che sfiora il surreale. Ansie, paure, malessere del vivere, desiderio di trovare una propria comunità solidale che accetti e sostenga ogni suo membro: sono i sentimenti che animano i personaggi e le vicende di una storia che si fa sempre più angosciante.
Per quanto doloroso, è però obbligatorio resistere fino alla fine di questo simbolico viaggio interiore, rappresentato in modo minimalista ed evocativo, per comprendere effettivamente il senso di una storia insostenibile, che parla dell’umanità, delle ferite, subite e inferte, degli errori e delle paure profonde che pongono ogni essere umano e quindi la società stessa – tutte le società – di fronte a scelte che restano comunque inaccettabili.
L’angoscia, la rabbia, la paura e il dolore, che questa assurda storia infonde, contemplano una ricerca insoluta che non torva risposte, ma spinge violentemente a riflettere sulla natura umana e su alcune delle circostanze in cui essa è più messa alla prova.
Eddington
Noto per i suoi horror psicologici, come Hereditary (2018), Ari Aster, per la prima volta in concorso a Cannes, propone questa volta un western contemporaneo interpretato da Joaquin Phoenix, Emma Stone, Pedro Pascal e Austin Butler. Nel pieno del lockdown pandemico, Aster narra una storia che riflette sulle tensioni sociali, sulle teorie del complotto e sulle false verità che imperversano nelle bolle di ogni utente della rete e costringono ogni persona ad un involontario quanto inconsapevole isolamento.
Ambientato in una piccola città del New Mexico nel maggio del 2020, nel pieno del lockdown pandemico, Eddington segue la storia di Joe Cross (Joaquin Phoenix), sceriffo locale, apertamente schierato contro il carismatico sindaco Ted Garcia (Pedro Pascal). Una serie di eventi fuori controllo espongono Joe al pressante giudizio della sua comunità e di sua moglie Louise (Emma Stone), in una caotica escalation fatta di video virali sui social, bizzarre manifestazioni e liti, fino a quando la situazione degenera pericolosamente in maniera sempre più incontenibile e surreale.
Eddington è probabilmente il film che più di questi si inserisce in un discorso apertamente politico. Quella di Ari Aster si manifesta come una sarcastica, divertente e spietata critica all’influenza dei social sulle persone con la annessa manipolazione della realtà e l’isolamento relazionale che ne consegue.
In questa guerra delle idee in cui tutti sono gli uni contro gli altri persi in un caotico affollarsi di idee e di fake news, Eddington si pone come perfetta critica dell’assurda e imprevedibile opera del governo ora diretto da Donald Trump.