Attrice del piccolo e grande schermo, Camilla Filippi presenta ad Alice nella città 2024 il suo esordio alla regia di un lungometraggio molto personale, Come quando eravamo piccoli. Con la semplicità che nasce dall’affetto profondo per un parente molto speciale Filippi racconta la storia dello zio Gigio, straordinario compagno di famiglia con cui condivide ricordi ed emozioni e grazie al quale getta uno sguardo sul mondo delle persone ipovedenti.
Coma quando eravamo piccoli
Zio Gigio è nato in casa, a Brescia, nel 1957 ed è uno dei tanti bambini con lesione cerebrale da forcipe che, tra le altre complicazioni, lo ha reso ipovedente. Dopo 42 anni da lavoratore di categoria protetta, se ne va in pensione e questa diventa l’occasione per fare un viaggio con i suoi unici parenti, i nipoti Michele e Camilla. Per lui sarà l’occasione di vivere un’avventura, per loro di confrontarsi sulla condizione della loro famiglia rimasta in sospeso da troppo tempo.
Come nasce l’idea di Come quando eravamo piccoli?
“L’idea nasce nel momento in cui mio fratello mi ha chiamata dicendomi che Zio Gigio sarebbe andato in pensione e ho capito che era arrivato il momento di raccontare come la convivenza con una persona con disabilità obblighi inevitabilmente a cambiare punto di vista, ad avere uno sguardo diverso, non tanto sulla malattia, ma sull’umanità. Zio è uno dei tanti bambini nati con una lesione cerebrale a causa del forcipe e che ha lavorato in categoria protetta per più di 40 anni negli Spedali Civili di Brescia. La pensione è sempre un momento complesso, di cambiamenti drastici, è la chiusura di un’era, per zio forse anche di più”.
Passare dietro la macchina da presa con una storia tanto personale e soprattutto accanto a persone così intime come è stato?
“Il passaggio dietro la macchina da presa è nato da una necessità, quella di fare un film sul senso profondo della famiglia. La famiglia, il tema più intimo e più universale che si possa affrontare. Sono felice di aver dato a tutti noi la possibilità di fare i conti con un passato da troppo tempo sospeso e spero che possa essere uno specchio dentro il quale il pubblico si possa specchiare e a prescindere che si possa riconoscere o meno, la mia speranza è che scelga poi di agire all’interno della propria sfera famigliare. Tranne rari casi abbiamo tutti conti in sospeso e penso debbano essere saldati prima che il tempo ci derubi della possibilità di farlo”.
Cosa le lascia l’esperienza di questo film dal punto di vista professionale ma anche da quello personale?
“Mettermi dietro la macchina da presa, avere la responsabilità di raccontare la visione complessiva di una storia è stato incredibilmente entusiasmante. Un atto creativo completamente differente da quello dell’interprete che non può avere, appunto, la visione complessiva. Mi porto a casa con certezza la libertà di voler sperimentare come attrice l’essere diretta da altri e di dedicarmi alla regia invece quando sento il bisogno di raccontare storie che voglio guardare da fuori. Questo è quello che mi porto a casa professionalmente, mentre a livello personale mi porto dietro un po’ di pace”.