Crimes of the Future, David Cronenberg e l’incerta forma dei corpi

A otto anni dal suo ultimo film, il regista di Videodrome e Crash torna sul grande schermo con una nuova riflessione sul corpo umano

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Crimes of the Future

Capolavoro o boiata pazzesca? Al pubblico, ora, l’ardua sentenza su un film, Crimes of the Future, che ha riportato David Cronenberg dietro la macchina da presa a otto anni dal non memorabile, diciamo la verità, Maps to the Stars. Attesissimo al Festival di Cannes, dov’è stato presentato in concorso, il film che vede protagonisti Viggo Mortensen, (vero e proprio alter ego del regista, ormai), Léa Seydoux e Kristen Stewart ritorna sui temi più cari al regista canadese che trasforma il body horror (di tendenza nel cinema fantascientifico degli anni Novanta) in body art estrema, nel bel mezzo di una pandemia in cui virus e vaccini hanno modificato corpi e dna di milioni di persone nel mondo.

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Più che un remake del suo omonimo film del 1970, Crimes of the Future è la summa dell’in- tera opera del geniale cineasta di culto che, dopo aver abbandonato il progetto di una serie per Netflix, in primavera a Toronto inizierà le riprese del suo nuovo film, The Shrouds, in cui immagina un mondo dove le persone possono assistere in tempo reale alla decomposizione dei loro parenti morti. «Nel 1966 – racconta il regista – ho visto un film danese, Sult, Fame, basato su un famoso romanzo di Knut Hmsun e diretto da Henning Carlsen. In una scena il protagonista, un poeta in cerca di affermazione, scrive sul taccuino che porta con sé “crimini del futuro”. Parole che mi hanno molto colpito facendo nascere in me il desiderio di leggere quella poesia, naturalmente mai scritta. È nato così il desiderio di realizzare nel 1970 un film underground e a basso budget con quel titolo. Il risultato non fu quello che speravo, ma il nuovo film non ha nulla a che vedere con il precedente».

Si parte con una scena scioccante, quella del soffocamento di un bambino da parte di sua madre, un bambino capace di mangiare e metabolizzare la plastica, e si passa a quelle in cui i corpi, in continua evoluzione, vengono aperti per mostrare gli organi che li abitano da sempre, e quelli nuovi da estrarre. «La prima scena rappresenta l’essenza stessa del film, ne è il motore e il senso. Quando si parla di futuro è necessario parlare di bambini».

Lo spettatore scoprirà presto come il vecchio sesso sia stato soppiantato da un nuovo erotismo che passa proprio attraverso tagli e dissezioni. Prima del festival Cronenberg aveva scommesso che molti sarebbero usciti dalla sala dopo i primi minuti. Così non è stato, ma le disturbanti visioni del regista non hanno lasciato indifferente nessuno.

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«Nella storia dell’umanità è facile osservare il tentativo costante di controllare i corpi degli altri, e attraverso questi la parola, l’espressione della loro individualità. È sempre stata una questione politica. Il corpo è realtà, non c’è nulla di più intimo del corpo e dunque non ci sono film più intimi dei miei, politici com’è politica tutta l’arte. Tutto quello che ha a che fare con il corpo è primitivo, basico, essenziale. Venti anni fa, quando ho cominciato a scrivere questa sceneggiatura, tutto sembrava molto teorico. Nessuno si occupava di ambiente, mentre oggi tutti parlano di microplastiche che stanno mutando non solo il mondo intorno a noi ma anche il nostro dna. La domanda che mi faccio però è questa: invece di tentare di ripulire il mondo e i corpi di milioni di persone, impresa impossibile, perché non lavoriamo per fare in modo che gli esseri umani riescano a metabolizzarla? Da qualche tempo alcuni scienziati stanno sperimentando un tipo di plastica edibile, osservando il metabolismo di alcuni animali che riescono a mangiarla senza che questo danneggi le loro funzioni vitali».

E pensare che al regista, maestro di una fantascienza lontana dall’immaginario profetico di un futuro improbabile, e ancorata al corpo umano e alle sue incessanti evoluzioni dettate dalla necessità di adattarsi a un ambiente sempre più tossico e ostile, era stato proposto di dirigere film come Top Gun. «Erano gli anni Ottanta, avevo una carriera e mi venivano ancora proposti dei lavori. Ma forse non era il momento giusto e nemmeno il progetto ideale: tutta quella materia militare proprio non mi interessa. E poi posso trascorrere volentieri due ore del mio tempo a vedere un film, ma di certo non due anni per realizzarne uno. Proprio non fa per me». E poi il cinema non è la sua vita, dice il regista, anche se è difficile credergli. «Mi piace essere un artista, creare, connettermi con gli esseri umani, ma ho tre figli e quattro nipoti. Per me la vita vera è con loro».

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«Non è la prima volta che lavoriamo insieme», dice invece Viggo Mortensen, al suo quarto set con Cronenberg. Nel film l’attore avrebbe voluto interpretare un ruolo diverso, quello del poliziotto, il cattivo della storia, e per il regista non è stato facile fargli accettare invece quello del protagonista. «Quando ho incontrato David per la prima volta, nel 2004, dopo la trilogia de Il Signore degli Anelli, mi ha colpito il suo senso dell’umorismo. L’anno prima era scoppiata la guerra in Iraq e la sceneggiatura di A History of Violence che mi aveva proposto non mi era piaciuta. Non so come ho trovato il coraggio di confessarglielo e lui mi ha detto di non preoccuparmi perché lo script sarebbe stato diverso. Il grande senso di fiducia reciproca rende il nostro lavoro decisamente più facile. Durante le riprese David ascolta attentamente i suggerimenti degli attori, spesso non li accoglie, ma ti fa sentire sempre parte della narrazione, per quanto fuori dal comune le sue storie possano essere».