In un modesto appartamento di Brooklyn, un uomo dipinge il proprio ritratto osservandosi in uno specchio. Il film si apre sulla sua tripla immagine: di spalle pennello alla mano, frontale nello specchio e catturato sulla tela. Numerosi critici hanno riconosciuto in queste tre versioni le varie identità di una spia. È il 1957 e l’uomo, il colonnello Rudolf Abel, è una spia sovietica, motore del film che attinge a una storia vera. Conoscendo l’amore di Steven Spielberg per Norman Rockwell, del quale è grande collezionista, a me è sembrato che citasse uno dei suoi quadri più famosi. Comunque immagine perfetta per dare inizio a una lunga sequenza, in pratica muta e priva di accompagnamento musicale, che ci introduce all’attività spionistica di Abel, uomo fragile dal volto impassibile – l’attore inglese Mark Rylance, premiato con l’Oscar – e al suo arresto da parte dell’F.B.I. Un inizio formidabile per un film di 142 minuti che riesce, attraverso varie mutazioni di ritmo, a mantenere sempre vivo il nostro interesse di spettatori. Conosciamo quindi l’abile avvocato assicurativo James B. Donovan/Tom Hanks, al quale è assegnata la difesa senza speranza dell’arrestato perché sia possibile dire che l’uomo ha subito regolare processo.
Donovan, onesto “uomo qualunque” tenterà di sostenere che il sovietico ha semplicemente obbedito agli ordini del suo governo e che merita il trattamento che ogni americano desidererebbe per un compatriota arrestato in Unione Sovietica. Ovviamente Donovan e la sua perfetta famigliola anni Cinquanta vengono additati dall’opinione pubblica come traditori della patria ma il film si interroga su etica e lealtà, ponendo l’avvocato e la spia uno di fronte all’altro, come riflessi dello stesso ostinato coraggio. La sceneggiatura del commediografo Matt Charman, rivista da Ethan e Joel Coen, fa spesso ricorso a considerazioni sulla costituzione americana che pochi attori avrebbero saputo recitare con la naturalezza di Tom Hanks, capace di darci l’impressione di essere pensieri materializzati al momento. Procedo per grandissime linee per non rovinare troppo il piacere della scoperta da parte dello spettatore, dopo una parentesi processuale, l’arresto di un militare americano in Unione Sovietica porterà Donovan a Berlino Est per negoziare lo scambio dei prigionieri.
L’avvocato, eroe suo malgrado affetto da violento raffreddore, dovrà affrontare difficili scelte, sino alla bellissima e tesa sequenza sul ponte berlinese che dà il titolo al film. Lo stesso Donovan raccontò questa storia nel suo La verità sul caso Rudolf Abel (Strangers on a Bridge) ma il film enfatizza la situazione del piccolo uomo immerso in una realtà sconosciuta e pericolosa, non dicendoci che Donovan aveva fatto parte del team di accusatori al processo per crimini di guerra a Norimberga e aveva in seguito militato in un’associazione governativa che precedette la C.I.A. Ma Il ponte delle spie non vuole essere un documento storico quanto un’avvincente e molto credibile ricostruzione del clima di paura e sospetto creato dalla Guerra fredda fra Stati uniti e Unione Sovietica. Risultato felicemente raggiunto da Spielberg, un grande che troppo spesso diamo per scontato.