Anche io (She said), intervista a Maria Schrader

La storia dell’inchiesta del New York Times che ha dato origine al movimento #MeToo arriva sul grande schermo con Anche io, diretto da Maria Schrader, con Carey Mulligan e Zoe Kazan

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I loro nomi, Megan Twohey e Jodi Kantor, restano sconosciuti. Eppure si tratta delle due giornaliste del New York Times che nel 2017 hanno fatto scoppiare il bubbone Weinstein, favorendo la nascita del movimento #MeToo. La tedesca Maria Schrader (Unorthodox su Netflix, I’m Your Man alla Berlinale 2021) racconta la loro storia con la complicità di Carey Mulligan e Zoe Kazan, ma anche di Ashley Judd e Gwyneth Paltrow, vittime illustri che si sono lasciate coinvolgere dal progetto. Senza dimenticare le interpretazioni di Patricia Clarkson e Andre Braugher. Ospite del Torino Film Festival, la regista ha raccontato quanto abbia significato per lei dirigere Anche io!, nelle sale dal 19 gennaio con Universal.

Un film non facile. Qual è stata la sfida più grande?

Si tratta di una storia vera, e non una storia qualunque, che ha avuto un grosso impatto sul mondo intero. Per la prima volta il New York Times ha aperto la propria redazione al cinema, l’edificio era vuoto a causa del Covid ed è diventato un immenso set. La sfida è stata quella di non lasciarsi intimidire dalla pressione e dalla responsabilità. Volevamo realizzare un affresco accurato del lavoro giornalistico, di quella particolare inchiesta, ma anche un fedele ritratto di quelle donne coraggiose che hanno raccontato per la prima volta la loro storia dolorosa. L’unica cosa da fare allora è lavorare moltissimo, fare ricerche, leggere, guardare documentari. Alla fine si tratta di un’opera di finzione, non bisogna dimenticarlo, anche se molto vicina alla verità dei fatti. Ci sono scelte artistiche che sarebbero state diverse se al mio posto ci fosse stato un altro regista. Bisogna liberarsi della paura e seguire un percorso artistico creato con i propri collaboratori.

She Said

Come avete coinvolto le attrici vittime di Weinstein?

Abbiamo aperto il progetto alle “sopravvissute”, sono state tutte invitate a dare il proprio contributo, ma abbiamo dovuto accettare la decisione di chi non ha voluto partecipare. Gwyneth Paltrow ci ha dato la sua voce in una conversazione telefonica e Ashley Judd, che in questi anni è diventata un’attivista, mi ha voluto incontrare a Berlino prima di accettare di interpretare se stessa.

Twohey e Kantor, sono raccontate anche nella loro vita famigliare.

Il loro libro è un reportage con i dati dell’in- chiesta, ma nel film era interessante conoscere il mondo emotivo delle due protagoniste che investigano su un tema così intimo e traumatico. In Tutti gli uomini del Presidente non si racconta la vita privata dei protagonisti perché non influenza e non intralcia il loro lavoro. Megan e Jodi invece sono anche madri e non possono dimenticarsene. Guardano i figli e continuano a interrogarsi sul ruolo degli uomini e delle donne nella società.

Non è la prima volta che ti occupi di donne in lotta contro un mondo dominato dagli uomini.

Mi interessa la collisione tra il privato e la so- cietà, il tema della violenza sessuale nei posti di lavoro, il concetto di indipendenza. La resa dei conti con la società e i suoi rapporti di potere è stato grande risultato del movimento #MeToo.

Il film dice molto del ruolo che i media dovrebbero avere nella nostra società.

È vero, il film racconta soprattutto la storia di Megan e Jodi, di come hanno messo in piedi la loro indagine. Quando ho letto la sceneg- giatura e i documenti dell’inchiesta sono rimasta senza fiato, come in un thriller, scoprendo tanti dettagli sulle difficoltà che hanno dovuto affrontare fino alla fine. Ho grande fiducia e speranza in giornalisti come loro che fanno un lavoro impressionante, quello di bussare alle porte delle persone per chiede- re loro fiducia, sostenuti anche dalle risorse economiche necessarie a condurre l’indagine, trascorrendo mesi e mesi su questa inchiesta. La sfida è stata quella di rendere avvincente questo grande lavoro di squadra. Nonostante tutto continuo a credere nelle istituzioni, alle rivoluzioni preferisco il riformismo.

L’ondata del #MeToo è stata travolgente.. Forse qualcuno non lo meritava.

Si è rotta una diga a causa di una lunga frustrazione e insopportabili silenzi. Ma la rivoluzione è così, le teste devono rotolare e le differenziazioni tra caso e caso non sono sempre state accurate. È successo tutto all’improvviso e ovunque, e non me la sento di essere critica su questo, c’era bisogno di un segnale forte a costo di quelli che definirei danni collaterali.

Nel film Weinstein non è mai definito un mostro. È stato difficile non lasciarsi coinvolgere emotivamente?

Se mi avessero chiamato per dirigere un film su Weinstein non avrei accettato. Megan e Jodi non sarebbero giornaliste di serie A se non avessero saputo controllare parole e comportamenti. Non sono attiviste, fanno il loro lavoro senza esprimere opinioni. Hanno pubblicato solo quello che potevano verificare, volevano trovare la verità. Come regista sono sempre interessata a rappresentare sfumature diverse dal semplice bianco e nero, è importante sapere quello che vuoi e non vuoi mostrare. E per me era molto importante non mostrare Weinstein. Quando incontra i giornalisti nella sala conferenze vediamo solo il volto di Megan che lo guarda senza lasciar trapelare le sue emozioni, la soddisfazione del trionfo. Lei sa che nessuno può fermarla ora e che lui è in un vicolo cieco, ma è anche consapevole che c’è qualcosa di molto più grande di Weinstein in questa triste storia.