Gli amori di Anaïs, Valeria Bruni Tedeschi: «Il cinema è il mio rifugio»

L’attrice e regista racconta a Ciak il ritorno sul grande schermo con Gli amori di Anaïs, primo film diretto dall’attrice Charline Bourgeois-Tacquet

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A marzo è arrivata sugli schermi con Parigi, tutto in una notte di Catherine Corsini, in competizione lo scorso luglio sulla Croisette, e il 28 aprile torna di nuovo nelle sale con Gli amori di Anaïs, primo film diretto dall’attrice Charline Bourgeois-Tacquet, distribuito da Officine Ubu dopo essere stato presentato alla 60a Semaine de la Critique del Festival di Cannes. Una commedia che, sulle note di Nicola Piovani, premiato ai France Odeon per la migliore colonna sonora, racconta di una trentenne inquieta (Anaïs Demoustier) che dopo aver cominciato una relazione con un maturo editore (Denis Podalydès) resta folgorata dalla moglie di lui, Emile (la Bruni Tedeschi, appunto), un’affascinante scrittrice. Un incontro destinato a cambiare la vita di entrambe. In attesa di ritrovare Valeria con il film presentato alla Berlinale, La ligne di Ursula Meier, e con Les Amandiers, il suo settimo film da regista.

Gli amori di Anaïs è diretto da un’attrice che esordisce alla regia. Le hai offerto dei consigli?

No, quando lavoro come attrice cerco di essere me stessa, se penso qualcosa la dico, ma è importante lasciare libero il regista di fare il suo film.

Cosa ti ha attratto di questo personaggio, una donna sicura di sé, libera, che sta bene nella propria pelle?

Prima di tutto mi è piaciuto l’incontro con la regista e la sua visione del mondo. Il personaggio di Emile mi sembrava diverso e al tempo stesso famigliare. Non è buffo né estroverso, ma neppure inibito. È semplicemente contenuto nonostante la sua grande libertà.

Un personaggio nuovo nella tua filmografia, meno nevrotico, più sobrio.

Non ho paura delle cose nuove, ma della stupidità, della noia, della volgarità. Quando le cose hanno un senso e la visione del regista dimostra coerenza, potenza, originalità, allora è tutto molto interessante.

Valeria Bruni Tedeschi e Anaïs Demoustier

Qualunque ruolo tu faccia, quello che appare sullo schermo è una luce forte, una grande energia. Dove la trovi?

Se non sentissi dentro di me questa energia di cui parli non accetterei di fare un film. La trovo nel cuore del personaggio, cercando di capire il bisogno primordiale che lo spinge a respirare, muoversi, agire. Se questo bisogno corrisponde a quello che potrei conoscere intimamente anche io, allora l’energia arriva, pure nel caso si trattasse di un personaggio depresso.

Ne La ligne di Ursula Meier torna a interpretare un personaggio eccentrico.

Ursula è una grande regista, potente, il suo cinema è ormai molto riconoscibile, come i quadri di un pittore. Ha un mondo fatto di visioni, paesaggi e personaggi che si trasferiscono da un film all’altro. È stato interessante tornare al pianoforte che suonavo quando ero più giovane, e che suona mia madre, è stato il mio modo di avvicinarmi a Christina. Mi è sembrato importante suonare davvero, anche se poi sono stata doppiata, ma non volevo far finta. C’è stato dietro un grande lavoro che in realtà si vede pochissimo, ma non importa, è stato il mio modo di darmi al personaggio.

Hai spesso sottolineato come si tenda a sovrapporre gli attori ai personaggi che interpretano. È una cosa che ancora ti infastidisce?

Non più, se uno spettatore mi confonde con uno dei miei personaggi avrà le sue ragioni. Quello che mi interessa invece è lavorare con registi che abbiano l’immaginario libero e che vedano oltre quello che ho già interpretato. Fino ad ora è stato così. Mi piace fare l’attrice sia ritrovando registi con cui ho già lavorato che incontrandone di nuovi, interessanti e potenti, che diano un senso al mio lavoro. Anche se oggi purtroppo poca gente va al cinema, vorrei continuare nel mio percorso attraverso incontri eccitanti, sorprendenti. Ci sono ancora tanti registi con cui vorrei lavorare.

La pandemia è stato molto difficile per tutti, e oggi la guerra in Ucraina ci rende ancora più preoccupati. Che impatto emotivo ha avuto per te tutto questo?

La verità è che vivo il mio lavoro come un rifugio. Quello che sta accadendo è agghiacciante, terrificante, ma io ho questo modo di reagire agli avvenimenti del mondo, anche se non ne vado molto fiera. Non faccio entrare le mie emozioni rispetto a ciò che accade, ma trasformo il lavoro in una specie di cuccia, come se fossi su un altro pianeta, tagliando un po’ la comunicazione con la Terra. Anche il film della Corsini, che giravamo nonostante il confinamento, è diventato una fuga e ci sentivamo dei privilegiati, più concentrati che mai. Ma questo non è un modo di partecipare al mondo. Oggi si può reagire diversamente a quello che accade e invece di fare l’ennesimo film forse si potrebbero scegliere interventi più concreti. Anche Raf, il mio personaggio in Parigi, tutto in una notte, è slegata dalla società e questo la rende un po’ ridicola.

La tua lista di progetti è lunga. Come fai a disintossicarti dal lavoro?

Mi è difficile riposare, accettare il vuoto, ma dovrei farlo perché è molto importante rigenerarsi. Anche se poi avendo dei bambini e dovendo occuparmi di loro non si può veramente parlare di vuoto.

La maggiore attenzione alle donne, al loro mondo, al ruolo che possono ricoprire nella società, e quindi anche nel cinema, ha generato sceneggiature più articolate?

Già il fatto che oggi, in una società alla ricerca di un maggiore equilibrio, le donne possano più facilmente dirigere film fa sì che ci sia un numero maggiore di personaggi femminili, anche più grandi. La vecchiaia non fa più così paura al cinema. Ma le cose devono muoversi verso una maggiore libertà, mentre l’impressione a volte è che tutto questo fantastico movimento abbia derive e conseguenze che non vanno in quella direzione. E questo è un peccato perché rischia di rovinarne la bellezza.

Il tuo prossimo film da regista parla degli anni di formazione presso la scuola di recitazione di Patrice Chéreau.

Racconto il desiderio folle di fare l’attrice, gli slanci potenti della giovinezza che vanno verso la vita, ma a volte anche verso la morte. Negli anni Ottanta, quelli della mia gioventù, c’erano molte ragioni per voler vivere e allo stesso tempo mettersi in pericolo. C’erano la droga, l’Aids. Al centro di Les Amandiers ci sarà tutto questo.