Un padre e una figlia. Il cinema e la vita. Un’infanzia da favola che si tinge di nero nell’adolescenza. Cadere e rialzarsi, ricominciare, salvarsi. Alla Mostra di Venezia è arrivato fuori concorso il nuovo film di Francesca Comencini, Il tempo che ci vuole, che affidandosi all’interpretazione di Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano, quasi sempre soli in scena, ricostruisce il legame tra la regista e suo padre, Luigi Comencini, attraverso alcune tappe di vita cruciali.
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Francesca racconta a Ciak del suo lavoro, prodotto da Simone Gattoni, Marco Bellocchio, Beppe Caschetto, Bruno Benetti e nelle sale dal 26 settembre con 01 Distribution.
In questa storia ci siete solo tu e tuo padre, gli altri componenti della vostra numerosa famiglia sono esclusi.
“Una scelta venuta al momento della scrittura. Durante il lockdown sono emersi molto ricordi, divenuti i miei compagni e la memoria, si sa, procede in maniera selettiva: spesso si salva solo ciò che ci riguarda direttamente in una certa situazione. Nel film c’è una casa un po’ astratta, che non corrisponde a quella della realtà, e certi momenti sono stati talmente intensi che mi sembrava ci fossimo solo mio padre ed io. Di contro i set sono molto affollati e caotici. Ci troviamo in una dimensione un po’ fantastica perché quando sei piccola e poi adolescente vivi le cose in maniera concreta e favolistica al tempo stesso”.
Il fantastico ricorre in tutto il film…
“Quando ero nell’età in cui tutto è fiaba, mio padre lavorava al suo sogno, Pinocchio, con l’idea di un mondo magico e favolistico che nascesse da quello contadino italiano. Ho vissuto quel periodo circondata da balene di cartongesso e gommapiuma, vedevo il burattino e una favola prendere forma e questo mi ha permesso di raccontare qualcosa di universale: quando si è piccoli e si è amati, tutto sembra magico. Tuo padre è una persona dotata di poteri che ti salveranno da tutto e tu figlia sei una creatura perfetta. Ma poi tutto questo si guasta e anche le fiabe fanno i conti con la realtà”.
Quanto è stato difficile raccontare la parte più dolorosa della tua vita?
“È stato molto liberatorio e ci ho messo il tempo che ci voleva. Avevo già affrontato nel mio primo film, Pianoforte, la mia dipendenza dalla droga e tutto quello che ho attraversato quando ero molto giovane, ma ora a 62 anni ne parlo per la prima volta in relazione a mio padre, liberata dallo stigma della vergogna di aver fatto una cosa sbagliata. Anzi, spero di riuscire a raccontare attraverso la mia storia le cadute di ogni adolescente, quando la favola si incrina, diventi una persona sgraziata e ribelle e senti di essere una delusione”.
Tuo padre non apprezzava i film basati sulle storie personali, rivendicando la superiorità di un cinema popolare, capace di parlare a tutti.
“Era l’idea di cinema di mio padre e di una generazione che forse per pudore aveva più difficoltà a parlare di sé. Il cinema doveva essere come il circo, bello, profondo, che divertisse e invitasse a riflettere. Io, ancora una volta, gli ho disobbedito”.
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“I film devono stare in piedi”, diceva.
“Mio padre era un architetto, per lui qualunque struttura richiedeva proporzione e misura. Ogni scena doveva essere necessaria per sorreggere la storia, ogni film era come una casa. Si sentiva un artigiano, dimostrando la sua grande umiltà di regista al servizio del racconto. Diceva anche ‘prima la vita e poi il cinema’. Inizialmente doveva essere questo il titolo del film, che parla di trasmissione tra generazioni, e di tutte le cose che mi ha trasmesso mio padre questa è la più decisiva. Ha fatto del cinema la sua scommessa di vita, ma non ha mai smesso di mettere gli esseri umani al primo posto, come si vede anche nel film: quando ho avuto bisogno di lui, il suo lavoro è passato in secondo piano”.
Perché Gifuni e Vergano per questi ruoli?
“Quando Fabrizio, che è un attore immenso, ha accettato questo ruolo mi sono commossa. Tra lui e mio padre non c’è una grande somiglianza fisica, ma Fabrizio, che fuori dal set, in jeans e maglietta, sembra un ragazzino, ha dentro di sé un contegno e un modo di essere fuori dal tempo che lo avvicinano agli uomini di quella generazione. Studia moltissimo, tra un ciak e l’altro ascoltava sempre in cuffia delle interviste di mio padre che aveva trovato da solo. A Romana invece ho fatto un provino di sabato, mentre girava il film della Cortellesi. Ero molto impegnata quel giorno, ho rischiato di perdermi l’audizione, quando l’ho vista ho deciso subito. Ha un fisico da giovane diva del cinema americano degli anni Quaranta, ma salta spesso fuori anche un folletto di adolescente scomposta”.
Hai provato a immaginare cosa penserebbe tuo padre del film?
“Preferisco non farlo, sarebbe arrabbiato forse, un film che parla di lui, figuriamoci… Ma credo che una delle tante missioni dell’arte sia quella di farti rimanere in compagnia di chi non c’è più. Il cinema permette di sconfiggere la morte”.
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