La legge del mercato: intervista a Vincent Lindon

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In La legge del mercato di Stéphane Brizé Vincent Lindon interpreta Thierry Taugourdeau, un padre di famiglia disoccupato da due anni che viene finalmente assunto come guardia giurata in un ipermercato. Costretto a denunciare i tentativi di furto dei suoi colleghi, Thierry si troverà di fronte a dilemmi morali, dovuti alla consapevolezza che l’adempimento pieno alle sue mansioni comporta il licenziamento di donne e uomini che sopravvivono in situazioni di difficoltà economica ancora più gravi delle sue. Un’opera che riflette sulla degenerazione del liberismo, sulle condizioni di precarietà sempre più esasperate e su un mondo del lavoro sempre più legato alla convenienza e al profitto, e sempre meno al rapporto umano e alle tutele del lavoratore. Un personaggio, quello di Thierry, che ha permesso a Vincent Lindon di vincere la Palma d’oro per la miglior interpretazione maschile al 68. Festival di Cannes.

Quale pensa che sia il lato del carattere che appartiene maggiormente a Thierry?

Il tratto del carattere di Thierry che emerge con maggiore evidenza è il suo sangue freddo. E la sua dignità. Mi fa piacere che tu mi abbia fatto questa domanda perché, secondo me, questo è un film dove dietro la piccola storia abita una grande storia. La piccola storia è quella di Thierry, di sua moglie, di suo figlio. Quella di un uomo, di un sindacalista che aveva un impiego e lo ha perduto e, ora, è costretto a confrontarsi con la disoccupazione. La grande storia è quella di un interrogativo: dove si trova il limite della sofferenza che ciascuno di noi può sostenere con se stesso e con ciò che ci circonda? La legge del mercato individua il momento in cui un uomo è costretto a compiere una scelta e a fare i conti con la propria necessità e la propria umanità.

Si è soffermato in modo particolare su qualche aspetto psicologico del suo personaggio?

Come attore, non lavoro sulla psicologia quando devo interpretare. Lavoro sul modo in cui il personaggio si veste, in cui si muove, in cui parla. Sulla sua gestualità e sui dettagli dell’aspetto fisico. Non credo nell’immedesimazione psicologica. Penso che partendo dai gesti di un personaggio arrivi, poi, la sua parola.

La legge del mercato è un film francese ma affronta un tema che riguarda tutti, soprattutto nel momento storico di una crisi che ha assunto dimensioni globali. Ciononostante, Thierry non abbandona mai la dignità. Fino a che punto il bisogno economico può prevalere sull’etica e sulla solidarietà tra uomini?

Si tratta di una questione molto complessa. In primo luogo, è un atto non soltanto di dignità ma anche di coraggio quello di rifiutare un sistema che impone di scendere a determinati compromessi. Ciascuno ha il diritto di scegliere di non far soffrire l’altro: questo è il valore di concetti come empatia, umanità, coraggio. Però, il coraggio è anche quello di soffrire in silenzio perché si ha la necessità di portare a casa la bistecca alla sera per dare da mangiare alla propria famiglia. Noi non sappiamo mai quello di cui siamo capaci, perché dipende sempre dalle circostanze in cui ci troviamo: succede che nelle guerre persone che sembrano deboli e fragili mostrino una tenacia e una capacità di sopportazione molto più di persone muscolari, apparentemente forti, che invece alla prima tortura cedono. Quello che conta è la capacità di risvegliarsi da uno stato di sofferenza, e la violenza delle situazioni in cui possiamo trovarci spesso può stimolare un nostro talento. Nella circostanza più estrema, possiamo desiderare di voler superare noi stessi.

Welcome (2009) Tutti i nostri desideri (2011) di Philippe Lioret sono stati gli ultimi suoi film distribuiti anche in Italia e, dal mio punto di vista, sono tra i più potenti degli ultimi anni. Finalmente, possiamo vedere anche qui un suo lavoro con Stéphane Brizé, con cui ha già lavorato in Mademoiselle Chambon (2009) e Quelques heures de printemps (2012). Quali sono le differenze più rilevanti tra questi due registi?

Nella vita, e nel cinema, c’è un momento per tutto. Philippe Lioret è un regista con uno stile cinematografico tradizionale. Le sue storie sono toccanti e realistiche, ma il suo stile di ripresa si basa molto sugli stacchi, sul campo e il controcampo, e copre interamente tutta la scena con le angolazioni più diverse. Nel momento del montaggio, attua poi una seconda regia, una seconda messa in scena. Stéphane Brizé filma letteralmente l’istante: coglie qualcosa della vita nel momento in cui avviene. A differenza di Lioret, lavora con lunghissimi piani sequenza e vuole che l’attore prenda il suo tempo prima di girare. Vuole che l’attore aspetti di sentire completamente su di sé la scena. Ne La legge del mercato spesso era “buona la prima”, perché per lui vale, salvo eccezioni per problemi tecnici, il significato di quel momento. Lioret, invece, riprende una scena anche dieci volte, e poi al montaggio cerca di “sentire” la ripresa più adeguata, quella che desidera veramente. Si tratta di due approcci cinematografici quasi agli antipodi.

Quale altro regista apprezza particolarmente e con chi le piacerebbe lavorare, soprattutto nel panorama italiano?

Molti attori decidono di lavorare con un regista basandosi sul suo film precedente o sulla sua fama, ma questo è un errore. Spesso, mi capita di scegliere opere prime o, comunque, registi all’inizio del loro percorso come Stéphane Brizé. E per lo stesso motivo, scelsi di lavorare anche con Emmanuel Carrère ai tempi de La moustache: perché lo sentivo nelle mie corde, e la stessa cosa non è detto che accada se mi dovessero proporre il settimo film di Jacques Audiard o l’undicesimo dei Dardenne. In Italia, ammiro tantissimi registi: Matteo Garrone, Ricky Tognazzi, Paolo Sorrentino ma la persona che sento più affine a me sia per il suo approccio artistico che per le sue dichiarazioni e, soprattutto, per il suo modo di comprendere il mondo è Nanni Moretti. Nella mia carriera, ho sempre compiuto le mie scelte basandomi prima sull’uomo, e dopo sul regista. Scelgo soltanto chi abbia la mia stessa sensibilità, nel cinema e nella vita.