Lin Jianjie, giovane regista cinese, ha vinto la 34esima edizione del Noir in Festival che lo ha premiato con il Black Panther Award 2024 per il thriller psicologico Brief histoy of a family. Il film, prossimamente in sala con Movie Inspired, racconta le vicende di una famiglia benestante: il padre è un biologo, la madre un’ex assistente di volo, Wei, figlio unico, è un ragazzo estroverso, e un giorno porta a casa un sumo compagno di classe, Shuo, un tipo tranquillo, molto intelligente, a tratti inquietante. Quando apprendono che Shuo proviene da un ambiente difficile, lo accolgono con affetto, invitandolo a passare più tempo nella loro casa. Integrandosi lentamente e subdolamente nella vita di questa famiglia, Shuo finirà per sconvolgerne l’equilibrio, e per far emergere segreti, insoddisfazioni e desideri irrealizzati. Abbiamo intervistato il regista.
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Perché ha sentito il bisogno di raccontare proprio questa storia?
La mia ispirazione nasce da due direzioni: la prima è che ho sempre avuto molta voglia di studiare la famiglia, da giovane sono stato spesso ospite di varie famiglie, e la cosa che mi ha sempre colpito guardando le loro foto è che tutti tendono a sorridere molto, e volevo cercare il mistero che si nasconde dietro questo sorriso, dietro questi ritratti di famiglia. E poi un’altra fonte di ispirazione è stata il fatto che ho studiato biologia, e mentre facevo il film ho pensato veramente che quello che guardiamo al microscopio è un po’ una rappresentazione di quello che esiste nel mondo reale, quindi quello che ho fatto è stato mettere in qualche modo questa famiglia sotto il microscopio come se fosse una cellula, ed è una cellula in sé, ma anche una cellula che rappresenta la società.
Shuo è un ragazzo ambiguo, la sua calma fa paura, e il modo in cui si insinua in questa famiglia inquieta, sembra quasi un virus che arriva a infettarla…
Sì, è una delle interpretazioni che si potrebbero dare, ed è interessante che tu abbia usato la parola virus perché effettivamente il genere che ho scelto per parlare di questo argomento, cioè il thriller, è un modo per entrare un po’ nella storia e ci fa pensare che questo personaggio sia un virus, ci immaginiamo che prima o poi faccia qualcosa di negativo all’interno di questa famiglia. Questa cosa fa pensare perché allo stesso modo il vaccino ha una componente anche del virus, quindi è un concetto molto importante per la storia.
Come si trova l’equilibrio per raccontare l’ambiguità di un personaggio come Shuo?
Una parte essenziale del mio lavoro è trovare il giusto equilibrio, parte dalla sceneggiatura, continua nel lavoro con gli attori durante le riprese, durante la post –produzione, nel montaggio, nel capire quale scene eliminare. Ti faccio un esempio: durante la scrittura avevo inserito delle scene in cui era presente anche il padre di Shuo, e una in cui lo seguivamo fino a casa, però ho poi deciso tagliarle, di togliere tutto quello che rappresentasse qualcosa della sua vita, in modo che tutto quello che sapessimo di lui ci venisse raccontato da lui stesso. In qualche modo il pubblico è nelle stesse condizioni della famiglia, è lo spettatore a decidere in che misura credergli. Anche per quanto riguarda il suono, la musica, tutto è stato studiato per creare l’equilibrio nell’ambiguità di questo personaggio così difficile da definire.
Shuo afferma di essere perseverante, di voler migliorare la sua situzione, è un ragazzo capace di prendersi tutto quello che vuole ad ogni costo, mi ha ricordato molto il personaggio di Ripley dell’omonima serie e del film Il talento di Mr.Ripley, cosa ne pensi di questo paragone?
Quando ho scritto la sceneggiatura non avevo punti di riferimento di nessun tipo, non pensavo a Ripley o a qualche altro personaggio specifico, però dopo aver realizzato il film molte persone me lo hanno detto, hanno fatto questa connessione, e poi anche io riguardandolo ci vedo delle somiglianze, e da un certo punto di vista sono molto felice perché in qualche modo ha fatto entrare il film nella storia nel cinema.
Un altro tema che tocca il film è la politica del figlio unico in Cina (abolita nel 2013), che impatto ha avuto per te e nella società cinese questa legge?
Secondo me la cosa che ha avuto un grande impatto in questa politica è stata a livello di mentalità, perché tantissime famiglie hanno dovuto abortire il secondo figlio, e il risultato, oltre al dolore e al trauma, è che hanno riversato tutte le loro aspettative, le loro speranze, i loro sogni, la loro pressione su questo figlio unico. E quindi quando guardo alle persone della mia generazione, che è quella che è stata impattata, ai miei amici, ai miei compagni di classe, vedo che da un lato hanno avuto le migliori risorse possibili, dall’altro però spesso hanno difficoltà a seguire i propri sogni perché si trovano a dover scegliere tra quello che vogliono loro e quello che la famiglia vuole da loro, e non sempre le due cose sono compatibili.
Quando e perché hai deciso di diventare regista?
È una domanda che continuo a farmi a ogni nuovo film e progetto, tutto è cominciato quando ho studiato biologia e dovevo decidere che carriera intraprendere dopo, avevo l’opportunità di fare un dottorato nella migliore università cinese, ma a quel punto è sorto un po’ il dubbio, non ero così sicuro che fosse quello che volevo per il mio futuro, ho cominciato a considerare varie opzioni, e tra queste c’era il cinema, perché era la cosa più lontana dalla biologia. Più studio e faccio esperienza diretta con il cinema più mi rendo conto, in realtà, che non è poi così lontano dalla biologia, perché entrambi in qualche modo studiano delle forme di vita e l’essere umano. Chiedersi perché si fa cinema secondo me è una domanda che un regista deve tenere sempre mente.