Matteo Zoppis racconta Re Granchio, in concorso all’Isola del Cinema

Il regista ha approfondito la costruzione del film in una lunga intervista a seguito della proiezione

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In concorso all’OPS – Premio Opera Prima e Seconda Lexus, Re Granchio di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis ha conquistato il pubblico dell’Isola del Cinema. Già presentata alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2021 e alla 40ma edizione del Bellaria Film Festival, l’opera rappresenta l’esordio al cinema di finzione della coppia De Righi-Zoppis.

La trama deriva da una ricostruzione storica e narra delle vicende di Luciano (Gabriele Silli), scapestrato vissuto nella Tuscia a cavallo tra ‘800 e ‘900. Costui, ribellandosi al dispotico principe locale, commette un “fattaccio” che lo costringe a migrare verso la Terra del Fuoco. Qui parte alla ricerca di un mitico tesoro, che per lui rappresenta una possibilità di redenzione dai propri peccati.

Guidato da una regia sapiente, evidentemente influenzata dalla lezione e dal gusto di Ermanno Olmi, il film rappresenta al tempo stesso un inizio e un punto di arrivo per i due registi. Approfondisce il discorso Matteo Zoppis, presente alla proiezione sull’Isola Tiberina.

Re Granchio arriva al termine di un percorso che inizia ben prima, con due documentari: Belva Nera e Il Solengo. Questi film hanno molti elementi in comune, a cominciare dalla Tuscia e dai personaggi che la vivono. Come nasce questa fascinazione, cosa vi ha spinto a raccontare queste storie?

Re Granchio, come i primi due film, deriva dai racconti che Alessio e io ascoltavamo in una casina di caccia nel viterbese. A differenza delle volte precedenti, però, non potevamo girare un documentario: avevamo pochi elementi, la storia era troppo vecchia e i cacciatori la ricordavano appena. Dicevano che questo personaggio, Luciano, aveva avuto un conflitto con il principe del paese e che era stato mandato in esilio… nessuno sapeva, però, che fine avesse fatto. Abbiamo quindi deciso di fare qualche ricerca e abbiamo scoperto che un omonimo ha preso una nave da Civitavecchia ed è salpato per Buenos Aires alla fine dell’800. Siamo partiti anche noi, ma in Argentina – nella Terra del Fuoco –, abbiamo perso le sue tracce. La seconda parte del film si rifà quindi alle leggende del luogo, che abbiamo intrecciato al percorso con il protagonista. Ci affascinava l’idea di raccontare come la tradizione orale tramandi storie che cambiano a seconda del territorio e di chi le racconta. Abbiamo quindi pensato di usare, a questo scopo, il genere western dandogli un’impronta autoriale.

In che senso?

Beh, volevamo che fosse una sorta di “western di mare” con un lungo prologo, in cui fosse approfondito il passato del protagonista. Se ci pensi, nei film western quasi tutti i personaggi che arrivano lì non hanno un nome né un vero passato, quindi noi volevamo raccontare questo nella prima parte, quella italiana.

E com’è stato passare dal documentario al cinema di finzione?

Si è trattato di un processo naturale: non faccio una gran distinzione tra fiction e documentario, se non per una questione “burocratica” e di rapporto con lo spettatore. Con Alessio abbiamo sempre immaginato gli abitanti del paese come veri e propri personaggi già impostati, quindi è stato semplice. Solo con Gabriele abbiamo lavorato più profondamente: per la costruzione di Luciano ha vissuto in paese per circa tre mesi, cercando di calarsi nella parte e nella reputazione del protagonista. Alla fine quasi tutti erano convinti si chiamasse davvero Luciano!

Qual è il tuo rapporto con pellicola e digitale? Cos’hai usato per Re Granchio?

Alessio e io abbiamo iniziato a lavorare in pellicola perché avevamo imparato a girare con quella, poi abbiamo iniziato a mescolare i supporti. A seconda di ciò che ci serviva sceglievamo l’una o l’altra soluzione: la cosa più importante per noi era che le immagini avessero una buona resa pittorica, in modo che a esse potesse essere associato un “valore” simile a quello di un quadro, o del tesoro cercato da Luciano. 

La narrazione sembra avere un forte legame con la musica, oltre che con le immagini. Cosa puoi dirci al riguardo?

All’interno del film ci sono tre canti, percussioni ispirate al kabuki nella prima parte e alle danze sciamaniche nella seconda, musica da banda e stornelli. Abbiamo fatto un profondo lavoro d’archivio, cercato canzoni che ben si legassero all’immagine e ne potenziassero la capacità comunicativa. Questo perché credo che il cinema sia “suono” prima ancora che video… pensa che, nonostante gli abitanti del Paese fossero ritrosi nella recitazione, quando si trattava di cantare tutti volevano esserci, tutti volevano farlo.

Ci sono novità su prossimi sviluppi? I cacciatori vi hanno forse raccontato qualche altra leggenda?

Non proprio… ma stiamo scrivendo un altro film. È ancora presto per poterne parlare ma una cosa è certa: sarà, questa volta, ispirato a una canzone.