Sembra mio figlio, Costanza Quatriglio: “Racconto l’odissea di Mohammad e quella di tanti esseri umani sradicati”

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Sembra mio figlio

«Il film Sembra mio figlio racconta la vera storia di Mohammad Jan Azad, di etnia Hazara, che, dopo essere fuggito dalla guerra in Afghanistan, arrivò in Italia ancora ragazzino. Da adulto sta per fare ritorno in patria, sulle tracce della madre. È un progetto a cui ho lavorato per quasi otto anni, mentre la vera vita di Jan e dei suoi affetti cambiava…».
Costanza Quatriglio è tra le più brave registe italiane contemporanee. Ha messo a fuoco, con lucidità di sguardo e rigore, realtà poco conosciute o poco raccontate dai media come la morte di Francesco Mastrogiovanni, legato al letto nell’ospedale psichiatrico di Vallo della Lucania (87 ore), o la morte delle tessitrici di un maglificio irregolare di Barletta nel 2011 (Triangle).

Costanza Quatriglio

Con Sembra mio figlio, presentato in anteprima mondiale a Locarno, torna alla forma “fiction” (a 15 di anni dal primo film, L’isola), per raccontare la vera storia di Jan Azad (anche cosceneggiatore) che diventa racconto collettivo su esseri umani sradicati. La sceneggiatura porta la firma della regista, di Doriana Leondeff e di Mohammad Jan Azad, già protagonista del documentario Il mondo addosso. Azad fuggì davvero tredicenne dalla guerra in Afghanistan e, dopo mesi di viaggio, riuscì ad arrivare in Italia nascosto sotto a un camion. La messa in scena è al contempo pudica e struggente (la sequenza finale è una delle più potenti del cinema italiano recente).

Il vero Mohammad Jan Azad (Ismail nel film) era stato protagonista di un suo documentario di qualche anno fa.
Jan Azad è stato protagonista di Il mondo addosso, quando era ancora minorenne ed era fuggito dall’Afghanistan da pochi anni. Allora viveva nelle case famiglia, era un ragazzino. Anni dopo mi ha raccontato di avere trovato notizie di sua madre. Da quel momento ho cominciato a raccogliere la sua storia e altri racconti reali. È stato naturale dare al racconto la forma di un film a soggetto. Nasce da vicende accadute che vengono trasformate e diventano qualcosa di altro. Non ho mai pensato di raccogliere questa storia e di realizzarne un documentario.

Perché?
Ho avuto immediatamente la sensazione che questa storia avesse la portata del grande racconto classico e mitologico, dell’archetipo, quasi un racconto omerico che era insieme Iliade e Odissea: Iliade, perché ci sono eroi/vinti, visti con una pietà antica, e Odissea, perché narra un lungo viaggio. Era naturale per me scrivere un copione che fosse l’elaborazione di un percorso lunghissimo di raccolta di Storia.

Sembra mio figlio

Dai tempi del Deserto dei Tartari (1976) di Zurlini non c’era una coproduzione Italia/Iran. È stato complicato girare in Iran (le scene ambientate in Pakistan, nda)?
Ci siamo dovuti confrontare con alcune difficoltà oggettive, nessun italiano girava un film lì da oltre quarant’anni. Abbiamo impiegato un po’ di tempo a ottenere le autorizzazioni necessarie e in fase di sopralluoghi venivamo guardati con sospetto dalla polizia. Nessun problema però durante le riprese.

Nel suo film c’è anche una sorta di “poesia dei volti”. La scelta del protagonista (il vero poeta hazara Basir Ahang) è stata dettata dal fatto che è un poeta?
Il fatto che sia un poeta mi ha sicuramente permesso di toccare corde che non avrei potuto trovare in un attore non professionista tout court. È un non professionista talmente abituato a usare la parola e a scrivere nella sua lingua madre o in persiano ma anche in italiano, che mi ha consentito di trovare la chiave giusta. Non gli ho dato un copione, gli ho raccontato le scene e poi, traducendo i dialoghi e ragionando sul modo di parlare di Ismail, abbiamo capito com’è il personaggio. Lo abbiamo creato insieme e infatti sul set non ho mai dovuto dirigere Basir o correggerlo. Ismail, attraverso la lingua madre, dice chi è. Pur avendo girato in un’altra lingua pareva anche a me di girare nella lingua che conosco da sempre.

Forse è parte della sua poetica anche la capacità di riconoscersi nell’altro.
Sicuramente c’è stato un lavoro di grande unione che è durato molto tempo, però penso sempre che l’altro deve essere “altro” e che l’identificazione sia un errore esistenziale. È bello riconoscere l’altro appunto come altro da te, il riconoscimento ha a che vedere con lo stare al mondo, con il sapere che quella persona con la sua singolarità porta con sé un valore che non deve essere tradito.

Forse è proprio questo che dice il film: “Tu sei altro da me e io ti riconosco, ti rispetto e ti onoro”.
Il film è potenzialmente pieno di “scene madri”, mentre invece non ce ne sono, anzi ci sono forse molte “scene figlie”.

Come ha lavorato sul pudore nel girare una storia così struggente?
Direi che questo aspetto è nato in fase di scrittura della sceneggiatura. Lì ho capito che dovevo lavorare su qualcosa che doveva restare fuori campo, dall’altra parte del mondo, e che come spettatori non avremmo visto. Era sicuramente una sfida enorme. Mentre ricostruivo la storia vera di Jan e con lui parlavamo delle ipotesi drammaturgiche, inizialmente ci veniva da pensare che avremmo mostrato sia un capo che l’altro del filo della telefonata tra Ismail (in Italia) e la madre o il patrigno o lo zio (in Afghanistan). Di solito al cinema, magari in montaggio parallelo, vedi entrambe le persone al telefono. Abbiamo deciso di stare solo “di qua”, su Ismail in Italia, ci siamo detti: “Andremo dall’altro capo del filo solo quando lo spettatore sarà pronto ad accogliere la storia di Ismail“, non prima. Solo più tardi Ismail accompagnerà letteralmente lo spettatore dall’altra parte del mondo… È stato un film complesso da scrivere perché ogni sequenza doveva essere costruita in modo tale da dare l’impressione di catturare un momento della vita di Ismail. Come a catturare una serie di istanti. All’inizio lo spettatore non capisce dove si trova, ma progressivamente, senza che se ne accorga, è dentro alla storia, dentro al mondo del protagonista.

Ha parlato del fuori campo. Al di là delle telefonate, spesso usa il fuori campo anche ad escludere elementi presenti nella scena. Per esempio quando viene accesa una candela, questa è quasi ai margini dell’immagine. È una scelta suggestiva che ricorre spesso. Come è nata?
È nata con il film. Ho sempre immaginato che il mondo fuori campo ci permettesse di chiarire, nella prima parte del racconto, la bolla esistenziale di Ismail in Europa. Nella scena in cui la bambina accende la candela, la macchina da presa arriva dopo sulla fiamma… Come a dire che è la vita che ti sorprende, che ti porta da qualche parte, la macchina da presa non può che arrivare in ritardo, un momento dopo… Come a dire: esiste la vita e poi, ma solo poi, esiste il cinema. Quando le due cose si incrociano, forse, viene fuori un film come Sembra mio figlio.

Sembra mio figlio

Come ha lavorato sul quadro? Non c’è un primo piano quando ce lo aspetteremmo, ci sono perfezioni di simmetrie, eppure volti tagliati… Non abbiamo mai la sensazione di “finzione cinematografica”.
Ho scelto un formato ampio di fotogramma, ho girato in 2:39, perché mi permetteva di avere qualcosa come sfondo: avere primi piani, volti e anche un’eco di qualcosa che succede dall’altra parte. L’idea era quella di partire con un fotogramma in cui i protagonisti fossero in qualche modo “giganteschi”, con inquadrature strette, in cui tutto avviene sul filo della voce e con il respiro dei protagonisti, e poi, man mano che la vita degli altri entra dentro la storia, queste proporzioni cambiano… Il corpo del protagonista piano piano si rimpicciolisce, fino a quando arriva dall’altra parte del mondo dove, facendo parte di un grande gruppo di connazionali, diventa enorme come il mondo che lo contiene.

Molti attori sono non professionisti. Il loro pianto nella sequenza finale è reale?
Sì, ogni donna in campo ha perduto un figlio, ogni figlio ha una madre lontana che non trova più, ogni uomo che ha partecipato alla scena delle fosse comuni aveva già seppellito davvero un proprio caro. Girare quelle scene è stato emozionante e doloroso per tutti.

Come dicevo c’è molto pudore nella messa in scena, ma si è mai sentita un po’ crudele a catturare quel pianto vero?
No, perché abbiamo pianto tutti insieme. Quella scena è stata girata come una sorta di preghiera collettiva. Intuendo l’importanza del racconto, quelle donne e quegli uomini mi hanno regalato le loro lacrime. Quelle erano le lacrime di tutte le madri che hanno perso il proprio figlio. Hanno messo il loro cuore a disposizione del film.

Luca Barnabé