Arriva sugli schermi Tramonto, opera seconda del regista ungherese premiato con l’Oscar nel 2016 per Il figlio di Saul. Protagonista è una giovane donna alla ricerca del misterioso fratello nella Budapest di inizio Novecento, al tramonto di un’epoca
Budapest, 1913. La giovane Irisz Leiter giunge nella capitale ungherese con il sogno di diventare modista nella cappelleria che un tempo apparteneva ai suoi genitori, scomparsi quando lei era bambina nell’incendio dello stesso negozio. Il nuovo proprietario dell’attività, Oszkár Brill, la respinge. Mentre nel negozio fervono i preparativi per accogliere clienti di riguardo, un uomo si presenta a Irisz alla ricerca di un certo Kálmán Leiter, suo misterioso fratello. La ragazza decide così di restare in città per trovare Kálmán, unico legame con il suo passato. Le sue peregrinazioni attraverso le buie strade di Budapest la portano a immergersi nel cupo tumulto di una civiltà ormai sull’orlo del baratro.
Arriva nei cinema il 4 febbraio Tramonto, opera seconda del 41enne László Nemes, premio Oscar nel 2016 per Il figlio di Saul. Il film è stato presentato in concorso all’ultima Mostra di Venezia, dove Ciak ha avuto l’opportunità di incontrare il regista ungherese.
Guardando Tramonto, e forse suggestionati dalle sue atmosfere cupe e quasi allucinate, si potrebbe pensare che la protagonista non sia un personaggio reale, ma una metafora.
Non è così: Irisz è una giovane donna assolutamente reale. Non è però la solita protagonista femminile, ma un personaggio come pietrificato da ciò che vede succedere attorno a lei, in un mondo e in una società in cui le è molto difficile muoversi. Nel contempo però ha una grande energia, una spinta profonda ad andare alla ricerca del fratello, a scoprire e vedere quello che accade o sta per accadere.
Il personaggio di Irisz assomiglia a Saul. Entrambi sono raggelati di fronte al mondo circostante e mostrano una incrollabile determinazione a proseguire verso i loro obiettivi. Tramonto ha la stessa cifra stilistica de Il figlio di Saul: c’è un grande lavoro sul sound design per creare un’esperienza immersiva per lo spettatore, l’uso dello sfocato e della camera a spalla che bracca la protagonista.
Quello che volevo era proprio creare questo senso d’immersione durante la visione. Mi interessava molto fare un film diverso dalle classiche pellicole storiche e d’epoca. Volevo portare lo spettatore a rompere un po’ i canoni e i codici del cinema convenzionale, dandogli l’opportunità di fare un viaggio, di camminare in questo mondo, fornirgli una prospettiva il più possibile soggettiva. È stato questo il nucleo del nostro lavoro. All’inizio, non avevamo l’idea di effettuare le riprese con la camera a spalla, pensavamo di collocarla sul dolly, poi però ci siamo resi contro che le inquadrature che avevamo progettato erano così complesse da richiedere la camera a spalla. La somiglianza formale con Il figlio di Saul ha a che vedere con il mio stile personale. Tramonto è un viaggio che non ha un percorso rigido e preimpostato, realizzarlo è stato un viaggio anche per noi. Credo di aver offerto allo spettatore la possibilità di vivere questa esperienza soggettiva e personale ed è ovvio che lo stile possa apparire simile a quello utilizzato per il mio lavoro precedente. Ci sono somiglianze in termini di approccio che consentono di dire che lo stesso regista ha firmato entrambi i film, senza confonderlo con altri.
Il background storico e il clima sociale della Budapest di inizio secolo descritti nel film hanno una base reale o sono solo finzione?
C’è una parte di finzione, ma nello stesso tempo è interessante dire che al volgere del secolo c’erano tantissimi gruppi – alcuni di natura politica e ideologica, altri legati al milieu artistico – che avevano creato piccole società separate, spinte dalla ricerca di un qualcosa di sconosciuto. C’erano in un certo senso forze oscure che spingevano la gente a cercare di capire. Sebbene all’epoca la tecnologia prosperasse e si sviluppasse, c’era comunque sempre, per contrasto, questa presenza e questa attrazione verso ciò che era misterioso e ignoto. Nelle strade di Budapest era facile percepire queste forze oscure di cui non si capiva l’evoluzione, ma che erano estremamente reali. Quindi potremmo definire questo film un’opera molto concreta e, al tempo stesso, se vogliamo, con lo stile di una favola.
Perché ha scelto di raccontare questo particolare momento storico, cruciale per la nascita dell’Europa del ‘900? C’è qualcosa che riverbera nel presente?
Quello a cui ero veramente interessato era cercare di capire come si era arrivati, che cosa avesse portato al XX secolo così come lo abbiamo vissuto, perché secondo me l’Europa avrebbe potuto prendere una strada molto diversa. Volevo cercare di capire come mai nel volgere di pochi anni fossimo passati da un mondo ricco e sofisticato all’autodistruzione, quasi al suicidio del continente. C’è un mistero in questo film, il mistero dell’animo umano, che in un certo senso è anche legato alla civiltà in cui vive.
Ci sono state suggestioni letterarie?
Di autori che ho avuto modo di leggere, come Kafka, Arthur Schnitzler e molti altri: certamente Kafka, i suoi personaggi che si trovano sempre di fronte a qualcosa che non riescono ad affrontare, il senso di disperazione, i grandi interrogativi fisici e metafisici. Sono stato influenzato dalla letteratura dell’Europa centrale, ma anche dalla fotografia, dal cinema, dalla pittura, quindi da un mix d’influssi che sono confluiti spontaneamente nel film. E sicuramente c’è anche l’idea che l’interrogativo è molto più importante della risposta.