Il colibrì, Francesca Archibugi: «Racconto il senso non lineare della vita»

Ne Il colibrì, che apre il 13 ottobre la 17esima Festa del Cinema di Roma, Francesca Archibugi adatta per lo schermo il romanzo Premio Strega di Sandro Veronesi

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È il film di apertura della 17esima Festa del Cinema di Roma, la prima diretta da Paola Malanga, e arriverà nelle sale il 20 ottobre con 01 Distribution. Tratto dall’omonimo romanzo premio Strega 2020 di Sandro Veronesi e interpretato da Pierfrancesco Favino, Kasia Smutniak, Bérénice Bejo, Nanni Moretti, Laura Morante, Sergio Albelli, Benedetta Porcaroli, Massimo Ceccherini, Il colibrì, il nuovo film di Francesca Archibugi, che lo ha scritto con Francesco Piccolo e Laura Paolucci, è già stato selezionato nella prestigiosa sezione Gala del Festival di Toronto.

Prodotto da Domenico Procacci per Fandango con Rai Cinema e Les Films des Tournelles-Orange Studio, segue la vicenda umana di Marco Carrera, un oculista, la cui esistenza è stata attraversata da coincidenze fatali, perdite laceranti e amori assoluti. La storia segue il flusso dei ricordi, saltando da un’epoca a un’altra, in un tempo fluido che va dai primi anni ’70 a un futuro non lontano, celebrando la forza della vita, la lotta per resistere, anche con le armi dell’illusione, della felicità e dell’allegria a ciò che talvolta sembra insostenibile. «Quando ho letto il libro non ho pensato di farne un film, perché mi sembrava molto complesso. Ma al tempo stesso lo consideravo materia mia», racconta la regista a Ciak.

Cosa l’ha colpita del romanzo?

La capacità di mettere a fuoco il senso dell’esistenza. Marco Carrera è un eroe suo malgrado, come lo sono quanti affrontano strazi, dolori, lacerazioni e frustrazioni insieme a tanta felicità e gioia di vivere. Il colibrì è un racconto brutale e non lineare di cosa sia la vita. La famiglia è una cosa complessa che ruota intorno a due estranei che si mettono insieme e costruiscono un castello di relazioni con legami che non sono solo quelli di sangue. Due persone che spesso sono un equivoco l’uno per l’altra. Famiglia vuol dire dunque tempesta, con gente che entra dalle porte e dalle finestre sconquassandola. C’è chi se ne va e si butta da una finestra, chi corre per le scale e poi torna. La famiglia è il centro della narrazione di tutti i tempi, il fulcro di legami con cui tutti devono fare i conti.

Le famiglie fanno parte del DNA del suo cinema.

Intese come un vortice che risucchia altre persone e al tempo stesso le espelle. Le relazioni più strette, quelle famigliari, ma anche amicali, sono la base della società, e raccontano un pezzo della nostra vita, del nostro Paese.

La sfida più difficile nell’adattamento?

Con Piccolo e Paolucci siamo stati fedeli al libro, non c’era bisogno di tradirlo perché ho fatto mia questa storia senza timore di cadere nell’illustrazione, andando in fondo a me stessa. È come se l’avessi scritta io. Da ragazzina seguii un seminario di Michalkov, che mostrò Partitura incompiuta per pianola meccanica, ovvero il Platonov di Čechov, e disse proprio questo: «È al 100% Čechov e al 100% mio». Da allora ho capito che se vivi il materiale con onestà, diventa inevitabilmente tuo. C’è però un terribile luogo comune da combattere.

Quale?

Sembra che al cinema non si possa raccontare la borghesia, piccola media o grande, come
se non fosse degna. Invece bisogna narrare proprio ciò che si conosce e tutti gli esseri
umani sono degni di essere al centro di una storia. A nessuno verrebbe in mente di dire
a Javier Marías o a Paul Auster che sono borghesi perché trattano di ciò che conoscono e che sanno interpretare. Male, bene, dolore e gioia sono ovunque, in qualunque contesto.

Il cast è uno dei punti forti del film.

Sono orgogliosa di Kasia Smutniak, e Picchio Favino ha regalato al set allegria, dolcezza, serenità grazie al suo modo di affrontare il lavoro con serietà e leggerezza. Non so da quanti anni, poi, chiedo a Nanni Moretti di fare l’attore nei miei film. Stavolta volta l’ho preso per sfinimento. Ci sono registi che amano il conflitto perché gli eccita la fantasia, invece il mio cervello si chiude quando sento che quelli che ho intorno non sono tutti concentrati nel fare la medesima cosa, in armonia.