A tre anni dal non troppo entusiasmante Cry Macho, Clint Eastwood torna al cinema – dal 14 novembre distribuito da Warner Bros. – con un thriller contorto e avvincente, in bilico tra giustizia e verità, egoismo e umanità. Da non perdere.
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IL FATTO
Justin Kemp (Nicholas Hoult), un giovane scrittore di riviste della Georgia in procinto di diventare padre, viene selezionato come giurato in un importante processo per omicidio. Inizialmente restio a partecipare a causa della gravidanza ad alto rischio della moglie, Justin si trova coinvolto nel caso più di quanto potesse immaginare. L’imputato è accusato di aver ucciso la sua ragazza dopo un’accesa discussione avvenuta in un bar. Lo stesso bar in cui Justin era stato quella sera, quando, tornando a casa sotto la pioggia battente, ha urtato un… cervo sul ciglio della strada. O almeno, quello che pensava essere un cervo. Man mano che il quadro si fa più chiaro, Justin si trova intrappolato in un gravoso dilemma morale: influenzare il verdetto della giuria e potenzialmente far condannare — o far assolvere — l’uomo accusato di omicidio.
L’OPINIONE
Si scrive Clint Eastwood, si legge storia del cinema. A 94 anni, con oltre settanta film da attore, firma la sua quarantesima (e probabilmente ultima, anche se noi speriamo ancora nell’immortalità) regia di un lungometraggio dal quale emerge l’ennesima dura analisi sull’etica, la moralità e lo stato di un Paese, l’America, in un quadro dove la giustizia risulta essere sotto processo tanto quanto l’imputato. Nel dna di un legal-thriller un po’ John Grisham vecchia scuola (ma la sceneggiatura è originale e scritta da Jonathan Abrams), Eastwood ci immerge in una storia intrigante e contorta, dove prende di mira in modo misurato il sistema giudiziario, dagli avvocati sempre più rivolti alla carriera personale, ai giurati esausti che preferiscono emettere un verdetto rapido pur di tornare alle loro vite civili, fino alle falle procedurali che possono far sembrare la verità sfuggente. Non a caso “a volte la verità non è giustizia” sentenzia Nicholas Hoult in uno dei dialoghi più incisivi del film, che lo vede protagonista al fianco di una eccezionale Toni Collette nei panni di un pubblico ministero in corsa per la carica di procuratore distrettuale.
Collette e Hoult, che tra l’altro ci regalano una nostalgica reunion a 22 anni da About a boy, spiccano ma si integrano in un cast altrettanto valido, nel quale Eastwood riesce a valorizzare anche le più piccole parti di altri giurati, tra cui quelle di J.K. Simmons e Cedric Yarbrough, l’avvocato di difesa di Chris Messina e Kiefer Sutherland.
La sceneggiatura di Giurato numero 2 è semplice e laboriosa allo stesso tempo, alternata dall’uso intelligente di flashback che aiutano a costruire la suspense, e non a smorzarla, come spesso accade quando se ne abusa. Gli scorci del passato diventano immagini torbide della memoria di Justin, ne delineano il suo carattere avvicinando lo spettatore alle sue scelte, condivisibili o meno. Un altro punto a favore di una storia che non casca nel predicatorio, ma piuttosto apre alla riflessione. Bentornato Clint, e grazie.
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La parola ai giurati (1957) di Sidney Lumet (con l’omonimo riadattamento per la televisione del 1997 di William Friedkin), due tra i legal degli anni ’90 più famosi, Presunto innocente (1990) con Harrison Ford e Codice d’onore (1992) con Tom Cruise e per restare in casa Eastwood, Sully (2016) con Tom Hanks.