Un’epopea western che rimanda sia ai classici del genere, quelli firmati da John Ford, per intenderci, sia alla sua rivisitazione in chiave più contemporanea, revisionista e crepuscolare. Ma con un occhio di riguardo questa volta alla tradizione. È dal 1988 che Kevin Costner pensava a una storia sull’espansione del West che ripercorresse i quindici anni a cavallo della Guerra Civile americana (1861-1865), quando il colonialismo bianco si affermò a discapito delle popolazioni indigene. Ed ecco che ventisei anni dopo il regista di Balla coi lupi (1990) e Terra di confine (2003), protagonista anche di Silverado e Wyatt Earp di Lawrence Kasdan e della serie Yellowstone di Taylor Sheridan, improvvisamente abbandonata non senza controversie (secondo Costner gli showrunner non erano pronti con le sceneggiature delle nuove stagioni), torna al mito della frontiera e approda per la prima volta come regista nella selezione ufficiale del Festival di Cannes, fuori concorso, con Horizon – An American Saga, che ha ideato, scritto (con Jon Baird), diretto, interpretato e coprodotto.
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Warner distribuisce nelle sale il 4 luglio e il 15 agosto le prime due parti di questo “film della vita” in quattro puntate, che sta a Costner come Megalopolis a Coppola, anche in termini di rischi economici personali: se il secondo ha sborsato di tasca propria 120 milioni di dollari, il primo supererà i 100 alla fine del quarto film, mettendo a rischio la sua proprietà di oltre 4mila ettari a Santa Barbara e rinunciando al proprio salario per tre, quattro anni. Accanto a Costner, che nel film entra in scena piuttosto tardi, nel cast ci sono Sienna Miller, Sam Worthington, Luke Wilson, Jena Malone, Isabelle Fuhrman, Thomas Haden Church, Jamie Campbell Bower e Michael Rooker.
Il fascino del vecchio West
Nel primo capitolo, quello presentato sulla Croisette, della durata di tre ore, il 69enne regista californiano, già tornato sul set per le riprese della terza parte della saga, rievoca il vecchio West, tra cieli aperti, paesaggi sconfinati, canyon, cowboy, pionieri, fuorilegge, fucili e pistole, esplorandone tutto il fascino antico e, articolando diverse linee narrative che seguono una vedova in lotta per la sopravvivenza dopo una tragedia, lo scontro di un venditore e di sua moglie con un’altra famiglia, una coppia britannica conquistata dalla promessa del West, un misterioso massacro, mostra come l’uomo bianco si sia insidiato in quelle terre spremendo sangue, sudore e lacrime dei nativi.
Horizon è il nome un insediamento nella valle del fiume San Pedro, costruito sui territori delle tribù Apache. «Ho fatto esattamente quello che volevo, offrendo al pubblico la mia visione di ciò che ho deciso di raccontare. Ho pensato che fosse arrivato il mio momento di farlo attraverso un’opera popolare, non pensata per il weekend di apertura nelle sale, ma per una vita intera, e non sarà il denaro a controllarmi. Horizon è esattamente ciò di cui voglio che il mio cinema parli. Abbiamo la tendenza a pensare ai western come a film semplici, ma non lo sono affatto. Vivere a Parigi o a Los Angeles è semplice, ma nel West le persone avevano problemi veri, non condividevano la stessa lingua, c’erano armi ovunque e nessuna legge. I western semplici di Hollywood non possiedono alcuna attrattiva, mentre un buon western deve essere complesso, mettere qualcosa di grosso in gioco, avere compassione, epica, errori fatali, scontri a fuoco e umorismo», ha detto il regista e attore, rivendicando una libertà creativa spiegata anche ai figli, che potrebbero non ereditare buona parte di un patrimonio messo sul tavolo pur di portare a termine l’ambizioso e visionario progetto. Non un’ossessione, ma un’autentica passione dalla lunghissima gestazione.
D’altra parte sono decenni che Costner conduce ricerche approfondite su quel periodo storico. «Ho letto di questo periodo per tutta la vita e ho cercato di attingere dalle mie fonti nel modo giusto. Sono stati di grande ispirazione i dipinti e le foto dell’epoca, volevo che i costumi, sempre molto importanti nel mio cinema, fossero perfetti». E a proposito del suo personaggio, Hayes Ellison, racconta: «È iniziato tutto nel 1988, prima di Balla coi lupi. Hayes e io abbiamo molto in comune e Hayes si chiama anche uno dei miei figli, che nel film interpreta il ragazzino deciso a non lasciare suo padre. Non aveva mai recitato prima, ma volevo che fosse con me quando sarei stato lontano da casa e dalla mia famiglia».
Per Costner il cinema non deve mai perdere il contatto con la realtà, affinché il pubblico resti saldamente ancorato a ciò che sta guardando. «I film devono avere qualcosa in comune con te altrimenti ti perdi, e certe scene servono per riconoscerti, perché il cinema è fatto di momenti da non dimenticare. Non credevo all’inizio che con Jon Baird sarei riuscito a scrivere una storia dove i personaggi femminili avessero un ruolo importante. In Horizon, ad esempio, c’è una donna europea che non conosce le regole del West e che sente forte l’esigenza di lavarsi, come tutti noi. Molti potrebbero pensare che una scena del genere non ha senso in un film western, ma per me è la cosa più logica e reale possibile proprio in un western».

Sugli ostacoli da superare per raggiungere il sogno di una vita, commenta: «Sinceramente non pensavo sarebbe stato così difficile realizzare Horizon, convincere la gente a investire dei soldi. È stato come spingere un masso in salita. Non penso che i miei film siano migliori di quelli di chiunque altro, ma al tempo stesso sono convinto che quelli di nessun altro siano migliori dei miei. Faccio cinema per me, certo, ma soprattutto per le persone, e le cose che amo di più sono sempre le più difficili da realizzare. Il fatto è che non mi disamoro mai del cinema e dei miei progetti. Tutti noi siamo qui a Cannes perché non vogliamo smettere di sognare anche se nessuno di quei ricconi lì fuori, beati sulle loro barche, investirà mai in un film. Ma quando le luci si spengono in un cinema può accadere davvero qualcosa di magico, per questo vorrei riuscire a realizzare anche il terzo e il quarto capitolo di Horizon. C’è una storia forte che ci accompagna altrove per tre ore, un tempo durante il quale noi siamo insieme. Non ci sono altri impegni in quelle tre ore, non dobbiamo andare al lavoro né accompagnare i figli a scuola, non dobbiamo fare nulla, solo concedere una possibilità alla magia del cinema. Sono stato un uomo molto fortunato, nella vita così come nella carriera, ho acquistato molte cose e quattro case che vorrei lasciare ai miei figli, ma so anche che loro dovranno camminare con le proprie gambe e vivere da soli la loro vita. Essere con loro al Festival di Cannes è magnifico, la prima al Palais du Cinema è stata un’esperienza straordinaria che mi ha commosso e che non mi aspettavo. Mi guardavo intorno incredulo che tante persone intorno a me potessero darmi una simile gioia e tanto amore. La mia mente ha cominciato a correre indietro nel tempo e io continuavo a chiedermi “Ma come diavolo ci sono arrivato fin qui?”» Horizon – An American Saga