I nostri ieri. Presentato a Roma il film di Andrea Papini

Evento al Cinema Troisi in vista dell'uscita del film, dal 9 febbraio nelle sale italiane. Presenti oltre al regista, anche i protagonisti Peppino Mazzotta e Maria Roveran e, per una riflessione sul tema carcerario, Lucia Castellano e Franco Corleone

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«Il protagonista di questo film, forse, è il tempo», ha detto il regista Andrea Papini presentando al Cinema Troisi di Roma il suo nuovo lungometraggio I nostri ieri, in sala dal 9 febbraio per Atomo Film (con anteprima, ancora nella Capitale, il giorno precedente), prodotto da Antonio Tazartes, Marita D’Elia e dallo stesso Papini col sostegno di MIC Direzione Generale Cinema, Emilia Romagna Film Commission e Ministero della Cultura. Il tempo del film è (anche) quello del microcosmo carcerario, dove si muove il protagonista Luca (Peppino Mazzotta), un documentarista e insegnante che coinvolge alcuni detenuti in un laboratorio dove sono chiamati a raccontare, attraverso il cinema, la storia di come sono finiti in prigione. Tra loro c’è il camionista Beppe (Francesco Di Leva), condannato per un crimine gravissimo.

La riflessione, allora, ha toccato inevitabilmente il nodo degli istituti penitenziari, col contributo di Lucia Castellano, Dirigente Generale dell’Amministrazione Penitenziaria, e di Franco Corleone, già sottosegretario alla Giustizia nel primo Governo Prodi.

Secondo Lucia Castellano il film, più che essere sul carcere, «utilizza il carcere per lavorare sul percorso di consapevolezza di se stessi» dei personaggi principali. «Da operatrice penitenziaria spero che questa consapevolezza si trasmetta a tutti gli spettatori, e cioè che il carcere non può bastare a se stesso, che entrare in un carcere è sempre molto complicato, e però bisogna farlo, perché la vita delle persone che stanno dentro non è una vita cancellata o sospesa». I nostri ieri, prosegue Castellano, rispecchia allora la necessità di «aprire le porte del carcere all’esterno e di attivare, con il cinema o con il teatro, questi percorsi di consapevolezza. Mi piacerebbe che questo film fosse proiettato nelle scuole e, perché no, anche negli istituti penitenziari».

«Il carcere», aggiunge Franco Corleone, «è un mondo complesso, purtroppo è diventato negli anni una discarica sociale, su cui si fa molta retorica», una retorica che andrebbe «tolta di mezzo», facendo sì che la detenzione sia riservata solo «a chi compie gravi delitti». Su di loro dunque si dovrebbe concentrare «la scommessa dell’articolo 27 della Costituzione», in base al quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono piuttosto tendere alla riabilitazione del condannato. Anche attraverso l’arte che, continua Corleone, «produce libertà e responsabilità. Credo che con l’arte si possa far discutere, far emergere un’umanità diversa».

Ed è un oggetto “diverso” da tanto cinema corrente, non solo sulle carceri, il lungometraggio di Papini, anche per uno stile che, sottolinea il regista, sceglie di concentrarsi «sul non detto», permettendo «agli attori di lavorare sottotono, sussurrando». Seguendo un «desiderio di utilizzare il cinema come elemento di riflessione emotiva partendo dalla realtà», distaccandosi dall’«eccesso di verbosità» di molta fiction contemporanea. E procedendo con «dei piani-sequenza molto studiati», che hanno dovuto contare sulla forte complicità tra i componenti del cast.

«Il cinema è un lavoro di occhi», sintetizza Peppino Mazzotta (che ha lavorato con Papini anche nei precedenti La velocità della luce e La misura del confine), «quando c’è qualcosa da raccontare e si ha la fortuna di non doverla verbalizzare, l’unico strumento che uno ha sono i propri occhi», come strumento per far passare «il pensiero, l’emozione. Si può fare quando la sceneggiatura lascia uno spazio a questa possibilità. Andrea è una persona che ha un approccio scientifico alle cose, anche alla narrazione, ed è positivo perché fa sentire gli attori più sicuri, capisci che tecnicamente ha già vagliato tutte le possibilità, sai che sei ben “protetto”, e in questo spazio protetto puoi esprimerti liberamente».

«A volte il nostro lavoro consiste nel “togliersi”, invece di “mettersi” a interpretare qualcun altro da sé», riflette a sua volta Maria Roveran, co-protagonista femminile del film (insieme a Daphne Scoccia, Denise Tantucci e, in una breve ma intensa parte, Teresa Saponangelo) e collaboratrice alla sceneggiatura. «Ci sono delle storie, come credo questa, in cui ci viene chiesto di sottrarre e di sottrarci: non è facile, perché noi attori viviamo di ego, credo che questo in realtà accomuni tutti gli esseri umani». Nel caso di Roveran, in particolare, la sfida è stata nel «non esagerare emotivamente le reazioni, per mettere quasi una sorta di straniamento».

Papini ha poi sottolineato l’importanza rivestita dalle location del film, girato in Emilia-Romagna nell’ex carcere di Codigoro (provincia di Ferrara), nonché nel Parco del Delta del Po, presso Stazione Foce a Comacchio, a Ravenna e a Bologna. «Il film nasce in quell’immaginario, in quelle zone», spiega il regista, che confessa di essere rimasto incantato «dal rapporto, in qualche modo anche ambiguo tra l’acqua e la terra» dei paesaggi. Per quanto riguarda la ricostruzione dell’ambiente detentivo, il cineasta specifica che «non è un film scientifico sulla struttura carceraria, non era questo lo scopo», essendo appunto il carcere qui «un pretesto per parlare del rapporto con la nostra memoria».