LONDRA – Dopo i mostri alieni dei due A Quiet Place, John Krasinski volta pagina e si occupa di altre creature fantastiche, ma buonissime stavolta. Sono i nostri amici immaginari, quelli che ognuno di noi aveva quando viveva nel mondo delle fantasie fanciullesche. Si chiama infatti IF (che sta per Imaginary Friends, per l’appunto) la nuova regia dell’attore, amatissimo sin dai tempi della serie The Office, che per l’occasione ci mette solo la voce, per dare vita a Blue, l’IF protagonista del film insieme a Ryan Reynolds e alla giovane Cailey Fleming (Judith Grimes in The Walking Dead). A Londra (dove deve passare un po’ di tempo, come scoprirete leggendo) abbiamo incontrato John Krasinski per una conversazione esclusiva per parlare di IF, nelle sale italiane dal 16 maggio distribuito da Eagle Pictures.
John, era giunto il momento di fare un film per le tue figlie.
Esatto, era l’unica finestra rimasta, aspettare ancora avrebbe significato ritrovarle adolescenti.
Da dove nasce l’idea del mondo degli amici immaginari?
La prima volta ci ho pensato dieci anni fan, ma non ero sicuro su come l’avrei potuta sviluppare. Poi, durante la pandemia, guardavo le bambine ed ero affascinato da questo mondo speciale nel quale non ero invitato. Erano così felici, piene di immaginazione, ispirate nell’inventare tanti giochi diversi.
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A un certo punto mi sono reso conto, durante il lockdown, che quella scintilla stava svanendo per fare spazio alla realtà dell’età adulta. Mi hanno iniziato a chiedere se sarebbero state bene e allora ho pensato che fosse questa la storia da raccontare, per dire loro che anche nei momenti meno felici c’è sempre qualcuno che ti guarda le spalle e un mondo pieno d’amore e di fantasie e creatività che ti aspetta.
Per rendere le cose più semplici la cosa migliore era prendere un attore che sembra adulto ma non ha mai smesso di essere un bambino.
Esattamente. La cosa fantastica di Ryan Reynolds, di cui sono sempre stato un ammiratore, non è semplicemente il fatto che abbia un enorme talento e che sia divertentissimo. Quando è fuori dal set ti rendi conto quanto sia una persona piena di sensibilità, amore e calore umano. Forse grazie a questo film sarò in grado di restituire al mondo questo lato di Ryan, che sarà comunque molto meno di quello che ho ricevuto in cambio, perché lui è davvero meraviglioso in questo film.
In un film come IF, effetti visivi a parte, la vera creatività risiede nei personaggi immaginari. Ti sei fatto aiutare dalle figlie, oltre che da un team specializzato?
Sì, mentre scrivevo la sceneggiatura volevo essere il più preciso sui personaggi immaginari, perché non mi fidavo di me stesso all’idea di “poi pensiamo a come devono essere”. Le specificità di ognuno di loro ha contribuito a migliorare la scrittura. Blue, Blossom e Lewis, i tre principali, sono venuti fuori abbastanza in fretta. Su tutti gli altri avevo delle idee e ho mostrato dei disegni alle ragazze e poi ho passato la palla al team creativo, davvero fantastico.
Qualunque cosa mi venisse in mente la disegnavano all’istante, ed è stata un’esperienza davvero divertente, non mi era mai capitato di confrontarmi con artisti di questo livello. A un certo punto mi hanno presentato le loro creazioni basate sulle idee che avevo avuto, ma con qualcosa in più. Se pensavo a una banana, loro tiravano fuori una banana con la fascia per il sudore e i polsini, perché naturalmente è una personal trainer. Hanno seguito questa linea su ognuno dei personaggi.
Certo, una banana personal trainer, cos’altro. John, ogni tanto ho la sensazione che rischiamo di perderti come attore, perché ti piace troppo scrivere e stare dietro la macchina da presa.
È vero, mi piace tantissimo, ma non voglio lasciare la recitazione. Sono da settimane impegnato sul set del nuovo film di Guy Ritchie (Fountain of Youth, una super produzione Apple che vedremo nel 2025 n.d.r.). Sono da sempre un grande ammiratore di Guy e l’idea di stare sul set con lui senza obblighi di regia e scrittura mi piace molto, anche perché quello è tutto un altro campo da gioco, che richiede moltissimo tempo e ti rapisce quasi al 100%. E per farlo devi trovare storie con cui entrare in una sintonia emotiva tale che ti venga il desiderio di volerle raccontare. Non penso sarei bravo a dirigere una sceneggiatura non mia, perché sento il bisogno di entrare nel processo creativo dall’inizio.
Fare un film per famiglie è complicato, si corre sempre il rischio di non trovare il giusto equilibrio, di farlo per un pubblico troppo giovane o troppo adulto. E non tutti hanno l’esperienza di una Disney alle spalle.
Hai ragione, me ne sono accorto sulla mia pelle di quanto difficile sia. E questa ignoranza è stata una benedizione, perché ho pensato “Ok, farò le stesse cose di sempre, ma rivolgendomi ai bambini”. Poi capisci che non è così che funziona e che rischi di restare nel mezzo e di fare un film che non va bene per nessuno.
La soluzione è pensare all’universalità delle esperienze che tutti condividiamo. Tra queste ci sono l’immaginazione e la creatività infantile e la scelta di cosa diventare da grandi. Mettere uno di fronte all’altro nel racconto una ragazzina che sta attraversando questo momento di passaggio e un adulto che ci è passato era la cosa migliore.
Hai avuto fonti d’ispirazione illustri?
Credo che la maggior parte dei registi contemporanei siano stati ispirati, in un modo o nell’altro, da Steven Spielberg. Quando preparavo il film ho buttato giù una lista di tutte le cose che mi hanno influenzato da ragazzo, quei film che mi hanno fatto capire che potevano esistere altri mondi. Willy Wonka e la fabbrica del cioccolato, E.T., Il mio vicino Totoro e tutto Miyazaki.
E soprattutto Harvey, il classico con James Stewart in cui ha come amico immaginario un coniglio rosa alto due metri. Ma mi sono accorto che quello che mi aveva colpito più di tutto fu Hook. Credevo di conoscere Peter Pan finché non ho visto il film di Spielberg che è una totale rilettura del suo mondo in cui ti immergi completamente.
Harvey il coniglio rosa è la ragione per cui siamo tutti qui a fare questo lavoro, in un modo o nell’altro.
Esatto. È la ragione per cui tanti amici hanno voluto unirsi al film e che è parte integrante del concetto stesso del film, perché dentro di noi a queste cose ci crediamo sul serio.
Parlando di generi, ti piace provarne sempre di nuovi, dall’horror alla commedia al fantasy per famiglie.
Credo sia semplicemente perché aspetto sempre che qualcosa mi ispiri. Non avevo mai avuto intenzione di fare un horror, ma quando lessi una delle prime stesure di A Quiet Place mi resi conto che potevo metterci qualcosa di molto personale. Era appena nata la mia seconda figlia e da padre mi ero immedesimato nell’orrore che attraversa la famiglia del film. E fare un film su degli amici immaginari viene fuori da uno stesso processo mentale. Quindi da una parte direi che non c’è una scelta cosciente, ma il fatto di cambiare genere, e quindi di non andare mai sul sicuro, innesca quel minimo di paura che contribuisce a farti dare il meglio.
Come te, condivido la vita con una persona che lavora nel mondo del cinema. Credo sia importantissimo, perché non abbiamo bisogno di spiegarci a vicenda necessità e priorità. Quanto conta per te tua moglie Emily Blunt dal punto di vista professionale e personale?
È fondamentale. Si parte dalla questione più pratica, la logistica, essere separati per la maggior parte del tempo, la necessità di spiegare ai nostri figli che va tutto bene e che mamma o papà devono stare lontani per un po’. E poi c’è la bellezza di avere al fianco qualcuno che come te pensa in grande e con cui incoraggiarsi a vicenda. È motore della mia ispirazione, senza Emily non sarei il regista o l’attore che sono, è una di quelle persone che se credi in qualcosa, è al tuo fianco al 100%. E questo fronte comune fa sì che, se qualcosa sembra impossibile, diventa possibile perché c’è lei.