“JULIETA”: L’INTERVISTA ESCLUSIVA A PEDRO ALMODÓVAR

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JULIETA

«È un drama seco, non un almodramma come spesso sono stati definiti i miei film. Poche lacrime, che le attrici dovevano consumare prima di girare. Poche parole. Molto dolore». Pedro Almodóvar, dimagrito, sorridente e immerso nei colori accesi della sua casa di produzione El Deseo, un nome che tutto dice, racconta a Ciak a Madrid il nuovo film Julieta, in sala dal 26 maggio, ispirato a tre racconti della scrittrice canadese Alice Munro: Fatalità, Fra poco e Silenzio.

Torna la luce dei suoi capolavori, quelli dove le donne e le madri regnano fiammeggianti, magari isteriche, sempre supreme. La prima immagine è un sipario rosso scarlatto che lentamente si anima: è l’abito di Julieta che palpita al battito del suo cuore. Un primissimo piano che stordisce, «trentotto ciak per ottenere quel sussulto, un’idea concepita lì per lì sul set: un cuore ferito e che tuttavia respira».

La Julieta dei giorni nostri, a 50 anni, è l’attrice Emma Suárez e vive un’ossessione, l’abbandono della figlia Antìa, che dopo la morte del padre è sparita senza darle notizie, annegandola nel senso di colpa. Trent’anni di silenzio, e nell’alternarsi di ellissi e balzi narrativi, Julieta ventenne nel 1985 avrà la bella faccia di Adriana Ugarte. Due attrici neppure somiglianti per la stessa donna. In una scena cruciale, la figlia Antìa adolescente e l’amica Bea asciugano amorevolmente la mamma depressa per il lutto avvolgendola in un ampio asciugamano: quando la stoffa si apre la giovane Ugarte è diventata la matura Suárez.

«Il dolore l’ha invecchiata in un attimo, lasciando il segno», si emoziona Almodóvar, «il gesto della due ragazzine è spirituale, quasi religioso. Volevo che la mutazione avvenisse sotto gli occhi dello spettatore, in modo cinematografico, non l’ennesima ellissi. Mi ricorda il sudario e il gesto della Veronica con Cristo, che mi colpiva tanto da piccolino. È un miracolo, un gesto carico di sentimento per un altro essere umano, perché io la Pietà la intendo tra gli uomini, non tra Dio e l’umano. Quell’asciugamano color terra bruciata, un colore che amo tanto, tra l’altro è italiano, di Missoni, ed è proprio il mio, l’ho usato anche stamattina per asciugarmi dopo la doccia (ride, nda). Mi sembrava bello che da quell’immagine di mutazione, da quel bozzolo, scaturisse l’idea che la ragazza più giovane, abbattuta dal dolore, sta però coltivando dentro di sé la donna matura che diventerà»

Ha pensato subito a due diverse protagoniste per le due differenti età? 

Subito. Non mi piace l’invecchiamento con il make up, perfino nei grandi film di Hollywood si vedono quelle facce impossibili, tutte finte. Non credo che il passaggio del tempo e il mutare dello sguardo si possano imitare con il maquillage, meglio due interpreti, anche se diverse. Ho naturalmente preso spunto dal film di Buñuel, Quell’oscuro oggetto del desiderio, dove la parte passionale e quella razionale della stessa protagonista avevano il volto di Angela Molina e Carole Bouquet. 

Ho contato molte morti in Julieta 

Ah sì, ha proprio ragione, tantissime. Troppe… 

Almeno sei e, a ciascuna morte, sembra corrispondere un incontro, una rinascita. Il sesso lenisce il lutto, il padre di Julieta s’è già rifatto una vita amorosa quando la madre muore. È quello che voleva dirci?

È stato un processo del tutto inconsapevole, ma è così. La mia sola certezza, all’inizio, era che Julieta, in quel treno che corre nella notte e mi ricorda l’Alfred Hitchcock di Intrigo Internazionale, conosce i due estremi più importanti della vita: la morte per suicidio del passeggero depresso e il concepimento di Antìa grazie all’incontro erotico con Xeos. Torneranno a far l’amore dopo la morte della moglie di lui, due corpi giovani che reagiscono in modo animale al dolore. È vero, è un tema che ritorna nel film, in altre occasioni. Ed è una sorta di suicidio anche il culto che Julieta dedica all’assenza della figlia, il suo rifiuto del mondo, l’isolamento in cui passa il tempo a scrivere lettere alla ragazza scomparsa. La sua sofferenza diventa malinconia. Quando la riprendo mentre cammina meccanicamente per la strada come un homeless, tagliando la sua faccia dall’inquadratura, si vedono solo i piedi. Julieta è una zombie.

Lei definisce Julieta un drama seco, che avrebbe dovuto titolarsi Silenzio, se Scorsese non avesse già scelto quel titolo per il suo prossimo film. Ha tolto ogni lacrima, ma anche ogni deriva humor o surreale…

Ho dovuto farmi forza per questo, ho un po’ tarpato le ali ai miei deliri barocchi, ma questo è un film sul dolore femminile legato alla maternità, una riflessione sulla sofferenza per l’abbandono da parte di persone che abbiamo amato e che spariscono dalle nostre vite come se non ci fosse stato mai nulla. Penso che il dolore non sempre unisce la famiglia, spesso separa e allontana, quasi sempre la perdita di un figlio spezza il matrimonio, perché nessuno ha voglia di vedere il proprio dolore riflesso nello sguardo dell’altro.

Ma proprio nel finale ancora una volta è proprio un lutto a sciogliere il nodo…

Non voglio svelare quel che accade, ma è certo che la figlia deve provare la stesso dolore per capire quello della madre, Julieta. Il finale e` scabro, molti vorrebbero che le due, madre e figlia, si corressero incontro e si abbracciassero. Ma la vita non va così, non è detto che ci si possa ritrovare dopo una tale, prolungata, assenza. L’ultima frase di Julieta è: «Non le chiederò niente». La madre ha ricevuto una durissima lezione, ora può solo tentare di stare a fianco della figlia accompagnandola in silenzio. Non a caso ho scelto qui una canzone della mia amica Chavela Vargas (grande cantante messicana, scomparsa nel 2012, Nda) che ho tanto amato: «Si no te vas, te voy a dar mi vida». Se non te ne vai, ti do la mia vita.

Come sono i padri del film? Paiono un po’ disarticolati come la scultura che passa di mano in mano…

Sono brave persone come Darío Grandinetti, egoisti ma vitali come il padre di Julieta, forse traditori come Xeos. Ma il film non parla di loro, i maschi restano in ombra, interessano poco: i problemi non sono provocati da loro, ma dalla fatalità – che esiste – e dal senso di colpa, ineluttabile. Questa è per me la parte più dura del film: Julieta non ha colpe eppure vive trent’anni come se ne fosse sommersa. 

Il film è tratto da In fuga di Alice Munro (in Italia pubblicato da Einaudi) e nel film lei mostra libri di Marguerite Duras e Patricia Highsmith. Tre scrittrici, tre donne…

Me ne accorgo mentre lo dice. Non solo, sul comodino di Julieta noi non lo vediamo ma è appoggiato. L’anno del pensiero magico di Joan Didion. Sì, la letteratura femminile mi interessa perché le donne sanno raccontare il dettaglio. Io ne ho bisogno. Se sul set servono i libri, persino quando non si vedono, mando qualcuno a casa mia a prendere i miei. Sono usati, dunque respirano…

Perché questo scrupolo?

Ho bisogno di condividere sentimenti e oggetti con i miei personaggi. Le ho parlato dell’asciugamano, ma la sedia dove sto seduto è la stessa dove si appoggia Julieta nel film, e i quaderni su cui scrive sono i miei preferiti, di Fabriano, comprati a Roma. Il portamatite anche è mio, come la libreria sullo sfondo. E la scultura mi appartiene da vent’anni, da vent’anni la guardo e so che un giorno sarà protagonista di un mio film…

È vero, come ha detto, che non può fare a meno del cinema, del set?

Sì, la mia è insieme una dichiarazione d’amore e di rinuncia. Se esiste una terapia che permetta di affrontare bene la vita per me è continuare a girare, è la mia ossessione, vocazione e condanna. Non posso decidere io, per me girare non è un lavoro, tantomeno una prigione, è persino più di una droga.

Lei, protagonista della fiammeggiante movida, avrebbe confessato che sta diventando sempre più misantropo…

(sorride, Nda) Non vorrei, ma temo di essere sulla buona strada. Sto però cercando l’antidoto…