“La tartaruga rossa”, intervista al regista del cartoon olandese dello Studio Ghibli

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Esce in sala per tre giorni, il 27-28 e 29 marzo, La Tartaruga Rossa, già in concorso ad Un certain regard, sezione parallela del Festival di Cannes, dove s’è aggiudicato il premio speciale della Giuria, e poi passato alla Festa del Cinema di Roma.

Diretto dall’olandese Michaël Dudok De Wit, Premio Oscar nel 2001 per il corto d’animazione Father and daughter, il film è una co-produzione con lo studio Ghibli e racconta la storia di un uomo che dopo un naufragio si ritrova su un’isola deserta. Deciso a lasciare l’isola costruisce una zattera, ma ogni volta che va per mare una misteriosa Tartaruga Rossa gli impedisce di prendere il largo e lo costringe a tornare a riva. Inizia così una storia senza dialoghi che indaga il profondo rapporto dell’uomo con la Natura, di cui è parte indivisibile.

A presentare il film a Roma il regista Michaël Dudok De Wit, che ha risposto alle domande della stampa.

Come è avvenuto l’incontro con lo Studio Ghibli?

All’inizio è stato uno shock, ho ricevuto una lettera dallo studio Ghibli ed è stata una cosa del tutto inaspettata. Ci chiedevano di fare insieme un lungometraggio, avevano visto il mio corto animato Father and Daughter (premio Oscar nel 2000 n.d.r.) e gli era piaciuto moltissimo.

Il suo stile e il suo tratto grafico non sono infatti lontani dalla sensibilità giapponese…

Vero, ma è stata comunque una sorpresa, soprattutto perché loro non sono soliti lavorare con registi non giapponesi. L’idea, poi, era ambiziosa, e rischiosa per entrambi. Vero però che condivido con loro un certo tipo di sensibilità, un certo tipo di rapporto con la natura, molto rispettoso. E poi adoro i loro film.

Cosa ha detto Isao Takahata dopo aver visto il film?

Isao Takahata (co-fondatore e regista dello Studio Ghibli insieme ad Hayao Miyazaki, n.d.r.) è una persona molto speciale, è molto silenzioso e modesto,  quando ha visto il film si trovava in Giappone, mentre io ero in Francia, ma mi mandò un messaggio dicendo che era molto contento e che il film era ancora meglio di come se l’aspettasse.

Come avete lavorato con l’animazione?

La tecnica è animazione di disegno a mano, questo è il nostro tipo di animazione, ma in questo caso lo abbiamo fatto non su carta, ma con una matita digitale disegnando su uno schermo. La difficoltà era animare la tartaruga nei movimenti lenti, e questo ci ha portato ad usare il 3D solo nell’animazione della tartaruga.

Avete ripreso attori in carne ed ossa, giusto?

Sì, per ispirarci nelle animazioni, non tutte le scene ma le più difficoltose, facevamo recitare e muovere gli attori. In questo modo i disegnatori potevano prendere l’ispirazione non solo sul modo di muoversi, ma anche sulle proporzioni, il modo di vestire, la prospettiva. Volevamo allontanarci da un tipo di movimento stereotipato e standard per avvicinarci a uno che fosse il più naturale possibile.

Da dove è arrivata l’ispirazione?

Quando ho scritto la storia sono partito dall’idea del naufrago sull’isola deserta, che è un’immagine archetipica, molto usata, ma funziona sempre. La mia passione più grande era il rispetto profondo nei confronti della natura intesa non solo come piante e animali, ma Natura intesa come vita e come morte. In questo contesto il protagonista all’inizio combatte contro la natura, ma poi la accetta fino ad arrivare a rendersi conto che lui stesso è natura.

Cosa simboleggia la tartaruga?

Non abbiamo pensato troppo a cosa potesse simboleggiare. Raccontare una storia è anche una cosa intuitiva, ho iniziato a scrivere la storia e mi sono chiesto che animale potesse impedire la fuga al naufrago, ho subito pensato ad una creatura marina, e poi è arrivata l’idea della tartaruga, subito dopo del colore e infine di fare proprio della tartaruga il titolo del film. Io sono una persona pratica ma non ho mai smesso di stupirmi dei misteri che mi circondano, dai misteri più semplici come la gravità, al mistero dell’amore. Ho cercato di capire subito se l’idea della tartaruga funzionava con i miei collaboratori, e loro mi hanno detto di sì. Trovo ci sia qualcosa di commovente nella tartaruga che lascia la dimensione dell’infinito, del mare, e che arriva sulla spiaggia e scava per deporre le uova. E poi c’è questa fatica incredibile nel deporle e nel tornate nel suo luogo dell’infinito.

Come animatore ha imparato qualcosa dal rapporto con loro?

Quando lavori così a stretto contatto con altri studi ci vuole una condivisione a livello di intuito, devi trovare il giusto mood, condividere gusti, ambiente, simboli, e lavorare con qualcuno che sia sulla tua stessa lunghezza d’onda. Io ho parlato molto con Takahata e ci siamo trovati subito bene; ho capito solo dopo che lui aveva fatto un grande sforzo per mettersi nei miei panni. Imparavamo tutti da loro, tutti i giorni, sul piano tecnico, della narrazione e anche del gusto. Una cosa che mi ha colpito è la totale fiducia, nel momento in cui hanno deciso di fidarsi l’hanno sempre mantenuta e all’inizio non c’era nemmeno un contratto che regolasse i nostri rapporti. Questo può sembrare normale tra amici, ma quando ci sono milioni di dollari in ballo non è così scontato. La fiducia è stata fondamentale.

Maria Laura Ramello