The Velvet Underground, conversazione con Todd Haynes

0

Todd Haynes e la musica, un legame fortissimo che va ben oltre i due esempi lampanti di Velvet Goldmine e Io non sono qui, i due fanta biopic su David Bowie e Bob Dylan. Nel cinema di Haynes la componente sonora è sempre stata importantissima, con scelte operate con gusto a seconda dell’epoca e dell’argomento.

The Velvet Underground ha un significato particolare per il regista americano

Scavare nella storia della leggendaria band formata da Lou Reed, John Cale, Sterling Morrison e Maureen Tucker è stato un vero e proprio dono a cui si è dedicato per oltre tre anni con una passione incredibile.

LEGGI ANCHE: SPECIALE BFI London Film Festival 2021

Il risultato finale lo potete vedere su Apple TV+, dove The Velvet Underground è atterrato il 15 ottobre scorso. Dopo averlo visto al BFI London Film Festival, Ciak ha raggiunto Todd Haynes per parlare direttamente con lui di questo documentario che riporta lo spettatore in un’epoca in cui i concetti stessi di arte e creatività viaggiavano ad altitudini elevatissime.

Todd Haynes, quanto personale è stato affrontare i Velvet Underground e quale del materiale su cui ha lavorato era utilizzabile o meno?

Tutta l’esperienza nel realizzare The Velvet Underground è stata molto personale. È il mio primo documentario e mentre ci stavo lavorando certamente non mi sarei aspettato di trovarmi nel mezzo di una pandemia.

Per fortuna avevamo girato le interviste nel 2018 e quando ho finito di girare il mio ultimo film, Dark Waters, Affonso Gonçalves ha iniziato a montarlo, un lavoro che ha preso buona parte del 2019.

Nel frattempo è entrato sul documentario Adam Kurnitz, il secondo montatore. Avevamo già acquisito nel sistema AVID che abbiamo usato per montare tutti gli archivi e i film avant-garde che poi avremmo utilizzato. A quel punto avevamo tutto quello di cui c’era bisogno per costruire le fondamenta del film.

Quando abbiamo visto il premontato della prima parte ho capito che era quella la direzione che volevo prendere e abbiamo iniziato a montare tutti e tre. Affonso e io eravamo entrambi a Los Angeles, quindi abbiamo praticamente passato il lockdown insieme, ognuno di noi aveva la sua postazione AVID, siamo entrati nel mondo dei Velvet Underground e attraverso quello stavamo cercando di sopravvivere al COVID e alla fine dell’era Trump.

Una situazione che si è rivelata un’inaspettata opportunità artistica e di arricchimento personale. A un certo punto avremmo voluto montare il film per sempre per quanto gratificante era quello che stavamo facendo.

Quanto il film è stato condizionato dall’impossibilità di parlare con Lou Reed?

Lou Reed era assolutamente centrale all’interno della band e della storia e ho costruito attorno a quest’assenza le mie decisioni creative. D’altro canto è stato importante avere il punto di vista di John Cale. Noi tutti pensiamo di conoscere bene Lou Reed per la sua carriera da solista, tutti i grandi dischi che ha realizzato, ma anche John Cale, una volta uscito dalla band, ha prodotto bellissimi dischi ed era importante avere un’altra voce, anche perché non volevo avere un susseguirsi di scene prese da video diversi, sarebbe stata una scelta lontanissima dallo stile immersive e dall’estetica che avevamo in mente per il documentario.

The Velvet Underground

Quindi, certo, abbiamo usato la voce di Lou, è molto presente nei video dell’archivio Wahrol e in quello fotografico ed è impossibile distogliere lo sguardo da lui, perché questa assenza mantiene vivo l’incredibile desiderio nei suoi confronti.

Ed è per questo che quando finalmente lo vediamo alla fine del film intervistato da Bob Colacello di Interview Magazine, nel 1973, con Andy Wahrol presente, e nel concerto al Bataclan dell’anno prima con John Cale e Nico, ecco, quelle scene sono davvero commoventi, e lo sono perché rimarcano un’assenza.

Se Lou Reed fosse stato vivo questo sarebbe stato un film diverso e non so che film sarebbe stato. Ma quello che so è che abbiamo fatto del nostro meglio per renderlo il più possibile emozionante con quello che avevamo a disposizione con lui.

Vorrei tornare un attimo sul montaggio. In un documentario c’è spesso la necessità di togliere cose che si vorrebbero lasciare. Mi piacerebbe sapere se in questo caso non ci sia stato del materiale che avreste dovuto usare ma che è stato volutamente evitato.

Come ho detto, bisogna sempre fare i conti con quello che si ha e quello che non si ha. Così come bisogna considerare che i montatori sono gli sceneggiatori di un documentario e lo scrivono proprio sulla base di quello che hanno o meno e di quello che imparano da ciò che hanno.

Ribaltando la tua domanda, quello che sicuramente nessun documentario musicale ha è il materiale a cui abbiamo avuto accesso noi. In quegli anni New York era la culla del cinema d’avanguardia e i Velvet Underground erano parte integrante di quella scena artistica e legati a quei filmmakers.

The Velvet Underground

E noi avevamo immagini girate da questi artisti che erano assolutamente rilevanti per la storia che abbiamo usato per dipingere il contesto e immergere lo spettatore in quello specifico tempo e luogo.

C’è naturalmente tanto materiale di Andy Wahrol, ma anche di altri autori la cui estetica e il cui stile erano completamenti diversi dal suo. C’era una grande varietà di linguaggi visivi che sono tutti parte del film e poterli avere a disposizione per lavorarci è stato un privilegio.

Qual è stato il suo primo incontro, musicalmente parlando, con I Velvet Underground?

Non prima del college, ma fu incredibile, mi accorsi all’istante di tutte le forze che quella musica generava e che convergevano verso di me per dirmi “adesso, questo è il tuo momento”.

Già ascoltavo musica di quel genere, David Bowie, Roxy Music, ma anche Patti Smith, molte cose della scena punk, ma non avevo mai realizzato che alla base di tutto questo ci fossero loro, niente di quello che hanno fatto questi e altri artisti sarebbe stato possibile senza i Velvet Underground, una band di cui non sapevo niente con appena quattro album all’attivo.

E lo stesso vale per cose venute dopo, come l’Indie e il Grunge. Il primo disco dei Velvet fu quello che mi ha formato, che mi ha invitato a sviluppare la mia creatività in cambio di quella che loro mi stavano mettendo a disposizione.

Ho conosciuto molte persone che dalla musica dei Velvet ha ricevuto esattamente le stesse sensazioni, come se aprisse nuove possibilità artistiche.

Sempre a proposito dell’archivio, c’è stato qualche cosa in particolare che ha trovato nel materiale che avevate a disposizione che l’ha particolarmente sorpresa?

Il processo di ricerca è stato il più importante all’interno del progetto. Brian O’Keefe, uno dei miei due  archive producer, è quello che si è davvero tuffato nella cultura e nel cinema degli anni Sessanta, che amo e conosco bene anche io, ma Brian ha curato la lista di tutto quello da cui volevamo partire per poi andare avanti.

E poi grande aiuto ce l’hanno dato I nostri partner produttivi di Motto Pictures, che sono specializzati nella produzione di documentari, e in particolare il lavoro di Carolyn Hepburn, una dei tre soci della Motto, che ha localizzato tutti i materiali che abbiamo chiesto, procurandoci versioni provvisorie da caricare nel nostro AVID.

The Velvet Underground

Credo che i film che conosco meglio siano quelli di Andy Wahrol, conosco abbastanza bene quelli di Jonas Mekas, che sono completamente diversi da quelli di Wahrol come stile e contenuti.

E poi c’è Danny Williams, che anche se ha frequentato la Factory di Wahrol per un breve periodo, durante il quale credo i due ebbero anche una relazione, ha girato moltissimo del materiale presente nell’archivio Warhol.

Williams si suicidò quando era molto giovane, non riuscì a reggere la pressione di quell’epoca così intensa, ma il suo linguaggio era potente e diverso, spesso basato sulla composizione di una singola inquadratura.

Le immagini in cui il diaframma si apre, il fuoco cambia, la velocità della macchina cambia, quello è tutto lavoro di Danny Williams, ne abbiamo tenuto molto nel film ed è un ulteriore livello narrativo e stilistico. Immagini in bianco e nero che vanno poi in contrasto con quelle a colori girate da Wahrol al concerto del Boston Tea Party e di cui abbiamo fatto ampio uso, perché catapultano tutto a un tratto in una performance dei The Velvet Underground, con il pubblico che balla, le luci stroboscopiche e la band illuminata da questi lampi lì sul palco.

Uno dei tanti tesori che abbiamo trovato strada facendo.