Isola, dibattito su La Santa Piccola

Il film d’esordio di Silvia Brunelli ha saputo infiammare, per la metà che conta, l’animo del pubblico tiberino.

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La Santa Piccola

La Santa Piccola di Silvia Brunelli è un’opera divisa a metà e che riesce a metà; nulla di strano per un film d’esordio. Progetto vincitore alla Biennale College 2019, il film racconta la vita di Lino (Francesco Pellegrino) e Mario (Vincenzo Antonucci), due giovani amici che vivono in una Napoli spaccata in due tra il loro rione e i locali della vita mondana altolocata, là dove scoprono se stessi e i loro più intimi desideri.

A fare da contralto alla vicenda è la storia di Annaluce (Sofia Guastaferro), sorella di Lino, che per aver salvato la madre dall’asfissia con l’imposizione delle mani viene tacciata di santità. A casa di Lino iniziano a sfilare persone che portano omaggi alla bambina e desiderano pregare con lei.

Amaramente comico, questo risvolto resta però in superficie senza alcun tipo di approfondimento, e seppure il film riesce a brillare in certi momenti lo fa sempre e solo quando la narrazione vira sull’approfondirsi dei sentimenti di Mario e del suo rapporto con Lino.

Come al solito, dopo la proiezione del film, è stato possibile trattenersi in compagnia di chi ha dato vita a La Santa Piccola: la sceneggiatrice Francesca Scanu e l’attrice Sara Ricci. In particolare la prima ha raccontato quali sono state le suggestioni in merito all’approccio sul tema del sacro: Credo che l’influenza principale sia arrivata da Pasolini, che ci ha trasmesso la fascinazione per l’immobilità davanti alla possibilità di una scelta. Un altro elemento è stato quello del realismo magico, là dove per noi era importante far sì che alcuni dei personaggi credessero sinceramente al miracolo avvenuto. Volevamo che lo spettatore stesso fosse portato a interrogarsi sulla realtà effettiva della cosa”.

Grande importanza è stata data alla coreografia dei corpi che, nel vuoto della loro esistenza, cercano tra loro un contatto. In tal senso a rubare la scena è stata Sara Ricci, che nella sequenza con Lino e Mario ha saputo “vivere fuori campo. E fuori campo il corpo della donna ha dato vita a un tentativo di far nascere un sentimento tra i due giovani. Era un rapporto interamente traslato e che viveva di quell’assenza”.

La liturgia del film, difatti, risuona soprattutto nella danza dei corpi. “Abbiamo provato e riprovato perché volevamo ci fosse una sensualità liberata – ha sostenuto la Ricci – che ci fosse armonia e realtà nei volumi”.

L’opera, come in molti hanno concordato durante il dibattito serale, non riesce a volare sulla rappresentazione della santità, ma brilla sulla metà che inscena la liturgia del profano.