Kill Me If You Can, l’incredibile storia (vera) del dirottatore buono

Arriva in sala il doc di Alex Infascelli tratto dal libro “Il Marine. Storia di Raffaele Minichiello”

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Il 1969 fu l’anno in cui la narrazione televisiva cambiò per sempre. I primi passi sulla Luna trasmessi in diretta nella calda notte del 20 luglio segnarono non solo un traguardo tecnico e scientifico senza precedenti, ma anche una rivoluzione mediatica dagli sviluppi inimmaginabili. Fu anche per il nuovo ruolo assunto dal piccolo schermo che il 31 ottobre del 1969 le trasmissioni televisive di tutta l’America vennero interrotte da un annuncio: un uomo armato fino ai denti aveva preso il controllo di un jet della TWA in partenza da Los Angeles e diretto a San Francisco. Iniziò così il più lungo dirottamento nella storia dell’aviazione.

Mentre l’America era incollata davanti alla tv seguendo con il fiato sospeso l’odissea del volo, gli agenti dell’FBI scoprirono l’identità del giovane dirottatore: Raffaele Minichiello, 19 anni, emigrato negli Usa dall’Irpinia dopo il terremoto del 1962, Marine pluridecorato per il valore dimostrato in Vietnam. Ma non era quel pazzo pericoloso che i cronisti descrivevano: sul volo si rideva e si giocava a carte, si lasciava il fucile incustodito per andare alla toilette e accadde pure che una hostess si innamorasse di quel giovane bello e spregiudicato decidendo di rimanere a bordo quando Minichiello fece scendere i passeggeri e parte dell’equipaggio prima di riprendere il viaggio. Nel frattempo anche l’Italia cominciò a seguire le peripezie del proprio connazionale diretto a Il Cairo e poi a Roma dove, una volta atterrato, tentò di fuggire, ma venne catturato e arrestato. Questo episodio però fu solo l’inizio di una vita piena di sorprese, sciagure personali e misteri rimasti insoluti.

A raccontare questa storia che sembra partorita dalla fervida immaginazione del più audace degli sceneggiatori e tratta da Il Marine. Storia di Raffaele Minichiello di Pier Luigi Vercesi, è Alex Infascelli con il film doc Kill Me If You Can, teso e appassionante come i migliori thriller, distribuito da Wanted il 27, 28 febbraio e il 1 marzo e presentato all’ultima Festa di Roma, dove il regista e lo stesso Minichiello, oggi un simpatico e tranquillo signore di 73 anni che vende pezzi di ricambio per automobili a Seattle, hanno parlato della loro collaborazione nella realizzazione del film prodotto da Lorenzo Mieli e Gabriele Immirzi.

Raffaele Minichiello e Alex Infascelli, Kill Me If You Can

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«Incontrando Raffaele – dice Infascellimi sono trovato di fronte a un enigma indecifrabile e per la prima volta senza un finale scritto. Ho scelto di documentare il nostro incontro costruendo intorno ad esso un tableau di risonanze per tentare di comprendere. Il sorprendente materiale d’archivio che ho trovato in anni di ricerche sottolinea come prima di me altri avessero già trovato interessante la sua storia. In questo continuo “zoommare”, dentro e fuori dal personaggio, quello che è venuto fuori è il più onesto dei miei lavori, non solo in termini di approccio o empatia con il protagonista, ma anche dal punto di vista narrativo. Alcune scoperte e colpi di scena mi sono apparsi mentre ero già al montaggio. E così ho lasciato che cadessero dove mi trovavo cronologicamente». «Volevo raccontare la mia storia – commenta invece Minichielloperché credo che possa essere utile a tanti. La mia vita è stata un continuo cadere e rialzarsi, ricca di accadimenti impossibili da raccontare in un solo film. Alex aveva tante informazioni, ma poi doveva scegliere per costruire il suo puzzle, ed è stato molto bravo».

Infascelli: «Sapevo che Carlo Ponti aveva tentato di fare un film su Raffaele, ma non sono andato a cercare gli sceneggiatori, quel progetto sembrava quasi una beffa e a quei tempi sarebbe stato visto come qualcosa di negativo, anche se Minichiello era diventato un personaggio popolare, quasi eroico. Pure la giustizia italiana si fece commuovere da questa storia». Minichiello: «Il dirottamento non esisteva come reato e l’Italia non mi poteva dare l’estradizione perché negli Stati Uniti c’è la pena di morte. Gli Usa però non l’hanno mai chiesta e ora lì sono un uomo libero mentre in Italia vengo sempre fermato all’aeroporto e trattato come spazzatura»

Il regista torna sulla questione del finale aperto, “interrotto”: «La vita è così, un continuo punto interrogativo e la ricerca della verità non ha mai fine. La fase di montaggio, che è il mio vero tavolo di lavoro, quello dove scrivo il film, a volte snerva i miei produttori: è un continuo tagliare e montare, smontare e tagliare. Il senso delle cose infatti, una volta messe l’una accanto all’altra, cambia. Nella prima parte sembra di vedere Peckinpah o Cassavetes, nella seconda Germi: c’è una grande quantità di generi cinematografici in questo film. Tragicamente però, mi sono accorto che non avevo un finale. Come chiudere? Nel modo più onesto possibile. Non conoscendo le zone grigie nella vita di Raffaele, dovevo finire con un nulla, che diventa un inizio. Per usare una metafora musicale, ho voluto fare come nelle canzoni di una volta, finire in dissolvenza»